Gravina: “Chi ci ha dipinti come menefreghisti, lo ha fatto…”

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Ivan Zazzaroni sul Corriere dello Sport-Stadio di ieri si è chiesto come si uscirà da questa odissea. Il giornalista ha intervistato il presidente della FIGC, Gabriele Gravina. 

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Il calcio ha 4 miliardi di debito, i titoli di alcune big tracollano, l’epidemia farà la cura dimagrante ai bilanci dei club?
«Ogni terremoto ha le sue macerie, non me lo nascondo. E sono molto preoccupato. C’è una negatività finanziaria pregressa su cui si abbatte adesso questo tsunami. Non sarà facile rialzarci. Dobbiamo porci subito il problema e ribaltarlo anche sui nostri interlocutori che hanno una responsabilità politica».

Che volete dal governo?
«Sospensione e rinvio di adempimenti fiscali, rateizzazioni. E il riconoscimento di una causa di forza maggiore che consenta alle Federazioni di riconsiderare molti impegni contrattuali. Poi dobbiamo attivare meccanismi interni di autosostentamento, come un fondo tra credito sportivo e federazione. E dobbiamo valutare una tutela per i calciatori che non giocano e che rappresentano un onere pesante per le società. Penso ad ammortizzatori come la cassa integrazione speciale».


La cassa integrazione per Ronaldo?
«No, per quelli che giocano in Lega Pro, il cui stipendio lordo è di 30mila euro all’anno. È impensabile toglierglielo senza far saltare tutto il sistema».

Ma alla fine dello tsunami il calcio somiglierà più all’Atalanta che alla Juve e all’Inter?
«L’Atalanta rappresenta un modello. Che, poi, è il mio e del mio Castel di Sangro. È la provincia ben gestita che ha dato anche a me la possibilità di emergere nel salotto buono del calcio. Per l’equilibrio finanziario, la qualità del gioco, la cura del vivaio, la valorizzazione del risultato sportivo. È una miscela straordinaria. Tutti abbiamo tifato per l’Atalanta, giorni fa in Champions. Tutti dovremmo un po’ imparare da questa realtà».

C’è chi dice: come si fa a pensare in questo momento al calcio, con la gente che muore? La sente questa retorica?
«Sì, la sento ed è sbagliata. Perché il calcio ha mantenuto una sua dignità ed è pronto anche in questo momento a mettersi al servizio degli altri, con iniziative benefiche a sostegno di chi lotta negli ospedali contro il virus. Però il calcio è anche un universo abitato da un milionetrecentomila atleti, dirigenti, allenatori e collaboratori a vario titolo, che regalano insieme al Paese le emozioni più belle».

Non c’è un posto al mondo dove l’uomo è più felice che in uno stadio di calcio, diceva Albert Camus, che con la sua sublime Peste potrebbe spiegarci molti aspetti di questa epidemia. In cui però il calcio non ha fatto proprio una bella figura. Anzi, ha dato la sensazione di voler giocare con l’emergenza, piegandola ai propri interessi.
«Non sono d’accordo. Nei primi giorni della crisi sanitaria, nel calcio c’è stato un dibattito aperto. C’era un decreto del governo che consentiva di giocare, sia pure a porte chiuse. E c’era la posizione dei titolari di licenze sulle gare, che ventilavano cause di risarcimento se non si fosse giocato. Si era tra due fuochi. Non era facile scegliere. Chi ci ha dipinti come menefreghisti, lo ha fatto artatamente per interessi di posizionamento personale all’interno del nostro mondo». Fonte: CdS

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