Andrea Agnelli al CdS: “Senza stabilità il calcio muore”

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La notte più lunga di Andrea Agnelli e una delle più difficili del calcio europeo. Nel giro di quarantotto ore un autentico terremoto con tanto di ripetute scosse di assestamento e di fughe precipitose da ogni dove per evitare di finire schiacciati da un’idea più grande della tradizione, ma in linea con una crisi epocale. I primi turbamenti del Barcellona, quelli di Miguel Angel Gil dell’Atlético, City e Chelsea pronti a sfilarsi, l’amministratore delegato dello United, Ed Woodward, dato per dimissionario. Agnelli inevitabilmente nel tritacarne. Gli hanno dato del traditore, del serpente, del giuda. Lui, con Florentino Perez, il volto più esposto della Superlega, il mostro a dodici teste considerato una terribile minaccia per l’ordine, o il disordine, costituito. Aveva letto, ascoltato, registrato e aveva deciso di parlare, scegliendo nelle prime ore del pomeriggio di ieri il nostro giornale e la Repubblica. «Prima di rispondere alle domande, partendo da quello che è stato detto e scritto, ritengo che alcuni punti fermi debbano essere chiariti». Una sorta di sfogo che merita di essere letto poiché riassume gli elementi di ciò che avrebbe dovuto essere e non sarà. «Uno: nessuna minaccia ai campionati domestici. Anzi, la ferma volontà da parte del gruppo delle dodici società di continuare a partecipare alle competizioni nazionali, sia al campionato, sia alle coppe. Quindi totale adesione a quella che è la tradizione. Due: fin dalla costituzione della SLCo, la Superlega, si è incoraggiato il dialogo con le istituzioni, nel nostro caso Fifa e Uefa. Tre: quello che stiamo facendo è perfettamente legale, stiamo esercitando una libertà prevista dal trattato dell’Unione europea, e questo aspetto lo considero particolarmente importante. Quattro: il calcio sta vivendo una crisi enorme di appeal che investe le nuove generazioni. Hanno inciso gli stadi chiusi da un anno. Per chi ha figli di dieci, quindici, vent’anni la disaffezione è più che palpabile: i giovani si interessano ad altre cose. Evidentemente – e qui entriamo in una sfera macroeconomica – questo triste fenomeno ha subìto un’accelerazione a causa della pandemia. Quinto, è forse il punto-chiave, quella che stiamo cercando di organizzare è la competizione più bella al mondo».  

 

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Al cuore delle obiezioni mosse, c’è un concetto molto chiaro: il vostro un progetto elitario che snatura il calcio, trasformandolo da sport popolare in club dei ricchi. Cosa risponde?
«Che non è assolutamente così. La nostra volontà è creare una competizione che possa portare benefici all’intera piramide del calcio, aumentando sostanzialmente quella che è la solidarietà distribuita agli altri club. Una competizione, lo sottolineo, che rimane aperta e prevede cinque posti a disposizione degli altri club».

Per merito sportivo o su invito?
«Questo fa parte del dialogo che abbiamo richiesto alle istituzioni. il maggiore problema dell’industria del calcio è la stabilità. Le riforme delle manifestazioni nazionali e internazionali sono temi che ho sentito rilanciare nel corso di ogni campagna elettorale di ogni presidente federale e di enti regolatori internazionali. Una volta arrivati a occupare posti di responsabilità, gli stessi pensano però al mantenimento delle posizioni di privilegio e di monopolio. La crisi non è soltanto finanziaria, ma di fidelizzazione. I più giovani vogliono i grandi eventi e non sono legati a elementi di campanilismo. La mia generazione lo era molto di più. Alcuni dati: un terzo dei tifosi mondiali segue almeno due club e spesso questi due presenti tra i fondatori della Superlega. Il dieci per cento è affascinato dai grandi giocatori, non dai club. Due terzi seguono il calcio per quella che oggi viene chiamata ‘fomo’, fear of missing out, paura di essere tagliati fuori. E adesso la percentuale più allarmante: il 40 per cento dei ragazzi tra i 15 e i 24 anni non prova alcun interesse per il calcio. Serve una competizione in grado di contrastare quello che loro riproducono sulle piattaforme digitali, trasformando il virtuale in reale. Attraverso Fifa crei la tua competizione, quella competizione va riportata nel mondo reale. Tralasciamo gli effetti della concorrenza dei vari Fortnite, Call of duty eccetera, autentici catalizzatori dell’attenzione dei ragazzi di oggi destinati a essere gli spender di domani».  


Lei ha spesso ripetuto che non era la Superlega a farle cambiare idea sui fondi. Conferma?
«Se i fondi ripresentassero le condizioni che offrirono il 3 di febbraio, vado a memoria, anche oggi non ne favorirei l’ingresso. Ho fornito ampie spiegazioni anche in Lega, non ricordo se nell’assemblea del 3 o del 10 febbraio, poco importa la data. Ho detto che temevo una flessione dei valori della serie A. Alla luce dell’esito dei bandi per i diritti non è andata così, pertanto la medesima operazione avrebbe dovuto prevedere numeri superiori a quelli presentati».
Lei cosa teme?
«Io temo molto il populismo, la demagogia e che qualcuno non prenda atto dello stato di monopolio nel quale ci muoviamo. Minacce, questa la risposta che abbiamo ottenuto. Impedire a un lavoratore di svolgere il proprio lavoro è gravissimo. Ad ogni modo, non siamo assolutamente preoccupati. Il nostro è un approccio a una nuova libertà. Nuova libertà che è garantita dai trattati dell’Unione europea. Vogliamo uscire da questa situazione di monopolio nella quale i nostri regolatori sono anche i principali competitor».
Urbano Cairo l’ha definita un traditore, il suo ex amico Ceferin addirittura un serpente. La accusano di averli traditi. Cosa risponde?
«Io ho lavorato per quasi dieci anni nelle istituzioni sportive internazionali. Bene, queste detengono il controllo delle manifestazioni, un monopolio di fatto, senza peraltro affrontare alcun rischio economico. Il rischio economico ricade esclusivamente sui club. Io non sono riuscito a far capire a quelle istituzioni l’enormità del rischio imprenditoriale per i club che generano valore per tutti gli stakeholder del calcio. O forse non avevano interesse a capirlo. Era necessario cambiare le cose».
Alla Juve hanno sempre rimproverato di non aver mai voluto essere la guida morale della Lega. Quando lei è sceso in campo l’ha fatto per rompere e uscirne. Perché ne vuole fare ancora parte?
«Perché la tradizione del calcio risiede nei campionati domestici. Il primo tifoso lo troviamo all’interno dei tornei nazionali. E per noi i tifosi sono importanti e devono avere la possibilità di venire ogni giorno, ogni settimana allo stadio».

Le uscite di Boris Johnson e Macron sono state molto dure e naturalmente contrarie al vostro progetto. Mario Draghi ha invitato invece a una sorta di mediazione.
«Secondo me la posizione di Draghi è di estremo buonsenso. Il mondo dello sport chiede da sempre a quello della politica di evitare ogni forma di ingerenza. Il primo a pretenderlo è Bach, il presidente del Cio. Nel caso specifico, se i politici volessero dare una mano, ricordo loro che stimiamo perdite dai 6,5 agli 8,5 miliardi e la necessità di liquidità dell’intero sistema è pari a 6 miliardi. Se si tenesse conto del contributo del mondo del calcio in termini fiscali e degli effetti in tal senso che una manifestazione come la Superlega può generare senza portare alcun nocumento, sono sicuro che qualche politico proverebbe ad aiutare la Uefa a capire perché si è giunti a questo punto».
Presidente, era pronto ad affrontare un rimbalzo così negativo in termini di immagine personale? E quando sabato scorso Ceferin ha provato invano a telefonarle s’era improvvisamente scaricata la batteria del suo cellulare?
«Avevo messo in conto che ci sarebbe stata una reazione di questo tipo. Per quanto riguarda i dettagli e le dinamiche di vita personale preferirei non commentare perché si commentano da soli. La volontà politica di un cambiamento nella direzione della lega dei più forti si manifesta da venti, trent’anni. Non abbiamo inventato l’acqua calda. Quello che non si è compreso è il terribile impatto della pandemia sul mondo del calcio. La massima istituzione del calcio europeo a dicembre del 2020 pensava che la pandemia non avrebbe fatto danni, se non ci crede vada a rileggersi il verbale. Ribadisco che la Uefa non corre alcun rischio nell’attività che regolamenta, ne trae solo benefici. Loro gestiscono i nostri diritti, li vendono, decidono quanti ridistribuirne, e ci regolano. La riforma del 2019 era una proposta Uefa, appena hanno sentito un minimo di rumore sono scappati. Parlano di distribuzione e ridistribuzione dei ricavi che noi generiamo e questo può essere fatto in modo molto migliore. Senza andare a individuare joint venture con Alibaba sulla pelle di United, Real Marid, Juventus eccetera. O sono regolatori o sono promotori commerciali. Scelgano cosa vogliono essere. Tutti noi nasciamo come un gioco e abbiamo statuti e regole del gioco, ma non possiamo più lanciare il dado e vedere che numero esce, oggi siamo un’industria da 25 miliardi. Nel mondo dell’automobilismo o sei Fia o sei Fom».  

Lei figura tra i firmatari delle due lettere contro il presidente della Lega Dal Pino. Qualcuno sostiene che il vero obiettivo fosse – meglio, sia – il presidente federale Gravina, il garante del sistema Italia.
«Prima dell’ultima lettera inviata ho chiamato Dal Pino, un atto di cortesia. “Paolo, noi ci siamo trovati in una situazione di stallo” gli ho spiegato “questo stallo deriva dalla gestione della proposta dei fondi. Non aver mai più portato, dal 3 febbraio al 26 marzo, quel tema all’ordine del giorno ha fatto sì che si creasse una spaccatura di fatto. Il presidente è una figura di garanzia e a nostro giudizio non ha svolto questo ruolo nella buona e sana gestione della Lega».

La Lega ha un amministratore, De Siervo, che stava portando avanti la linea delle sette società del blocco di minoranza.
«Sono d’accordo, ma riportare un tema all’ordine del giorno è un potere del presidente, e questo è un fatto oggettivo. Bastava porre all’ordine del giorno la domanda “interessano ancora i fondi?».

Se Sky, che detiene i diritti della Champions per i prossimi tre anni, così come Mediaset per il chiaro, e Dazn che ha investito oltre 2 miliardi e mezzo sulla serie A, si ritrovassero a trasmettere prodotti impoveriti, come pensa che si comporterebbero?  

 «In Inghilterra erano convinti di avere altre squadre in zona Champions e si ritrovano con Leicester e West Ham. Le televisioni che fanno? Non pagano? Ripeto, il punto è la stabilità. Le faccio io una domanda: lo sa qual è la partita che ha il maggiore valore economico nel calcio europeo?  

La finale della Champions.
«No. Il playoff di Championship per accedere alla Premier vale circa 150 milioni. Stabilità. I top club trasferiscono ricchezza, mi faccia il saldo della campagna acquisti anno su anno e vedrà quanto incidiamo. Inoltre viviamo con la pressione del risultato. Se perdiamo due partite di fila titolate ”Crisi fotonica”. La stabilità consente di far crescere risorse come un allenatore alla prima esperienza. E i giovani. In Germania per otto anni di fila ha vinto il Bayern, in Francia c’è l’egemonia. In Italia in 100 anni di serie A ottanta volte ha vinto una tra Juve, Inter e Milan. Sono statistiche, potrei organizzare un simposio sull’evoluzione del mercato e sull’incidenza dei diritti televisivi sulla geografia del calcio europeo. Il sogno io non te lo nego, sottolineo tuttavia un aspetto che trovo assurdo. Io sono nel calcio dal 2010 e nel 2010 la Juve dal sistema riceveva 100 milioni di euro. Nel 2020-21 ne ha presi sempre 100, la stessa cifra in undici anni di sviluppo, mentre noi siamo passati da un fatturato di 170 a uno di 550, investendo 450 milioni in infrastrutture. Abbiamo portato Cristiano in Italia e la sua sola presenza ha garantito agli altri club 4 milioni al botteghino. Desideriamo continuare a importare altri campioni con benefici per tutti i livelli del calcio, dai più giovani ai dilettanti».  
 
Dica la verità: ha mai pensato di aver sbagliato a prendere Ronaldo?
«Mai. Lo rifarei domani mattina».

E Pirlo?
«Anche».  

Ivan Zazzaroni (Cds)

 

 

 

 

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