Amarcord – Rubrica di Stefano Iaconis: “L’uomo con il cappotto”

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La mano sinistra, alta, agitata forte, spinge la squadra in avanti. Con gesti decisi. Quella destra, tenuta bassa, all’altezza del fianco, nascosta dalla tasca del cappotto color cammello, flette le dita piano, quelle dita ingiallite dalla nicotina, lentamente, indicando di stare lì, poi di tornare indietro, aspettare. Il pubblico del San Paolo urla il suo grido di riscossa, mentre quelli ai bordi del campo, sorridono scuotendo il capo. Era uno dei mille trucchi utilizzati da Bruno Pesaola, il “Petisso”, il piccoletto. Il pubblico napoletano chiamava a gran voce l’assalto, e lui, ineffabile, circondato da un nugolo di sigarette fumate fino al filtro, sparse ai suoi piedi, li accontentava. Senza dimenticare il suo credo calcistico indissolubile: difesa, difesa, ed ancora difesa. Pesaola, l’ ultimo dei romantici. “Sono un napoletano nato all’estero per caso”, amava dire. Niente di più vero, per un uomo che legò il suo carisma, il suo istrionismo, il suo modo di intendere il calcio intinto nella passione tutta Argentina che lo pervadeva, alla città di Napoli. La sua ironia, che sprigionava potenza nel lampo di occhi neri furbi. Occhi che ragionavano di scaltrezze di irridente intelligenza. Da Avellaneda, dove Independiente e Racing si contendevano la supremazia calcistica cittadina, a Buenos Aires. Sponda River Plate. Alla corte di Cesarini, quello dell’ omonima zona resa celebre da Nicolò Carosio poi, in mille epiche radiocronache affidate alla fantasia di ascoltatori sognanti. Al fianco di Alfredo Di Stefano. Quel Di Stefano capace, con Puskas e Gento, di far nascere più avanti la leggenda del Real Madrid. “Il Petisso”, il piccoletto, nasce calcisticamente in quella squadra. Ala sinistra. Brevilineo, dribbling fulminante, velocità, la zona sinistra del campo come reame da percorrere, signore di quel territorio, e nell’area di rigore, capace di “sentire” la porta. Nel saccheggio dei talenti sudamericani da parte delle squadre europee, arriva in Italia, a Roma. La capitale è perfetta per Pesaola, i suoi vizi. Vizi che lo accompagneranno sempre, il suo marchio. Notti, whisky, tavolo di poker, donne. Sigarette. A centinaia. Il suo profilo Bogartiano, da tenebroso tascabile, lo lancia perfino nel cinema. Recita in un paio di films. Cinecittà lo chiama, i rapporti fuori dal campo di gioco con il jet set romano, lo accompagnano. Appare sul grande schermo di fianco a Walter Chiari, suo grande amico, ne “Gli inafferrabili”. E nel secondo capitolo dello stesso film con Carlo Dapporto. Calcisticamente lascia una traccia minuscola, in giallorosso, la migliore stagione è la prima, con 11 gol. Quell’anno, è il ’47, per uno scherzo del destino premonitore segna la sua unica doppietta stagionale a Napoli, nel due a uno per i giallorossi Sono complici, nella fine della sua permanenza romana, anche due infortuni, il secondo che rischia di porre perfino fine alla carriera. Nel febbraio del ’50 si rompe tibia e perone contro il Palermo. Rientra, e nella gara con l’Atalanta, in aprile, si frattura nuovamente il perone. Medita di lasciare il calcio. Monzeglio, che allena il Novara, lo convince a trasferirsi in Piemonte. La società novarese gli salda tutti i conti nell’ albergo dove sta facendo la riabilitazione e lui, con le valigie già pronte per tornare in Argentina, ci ripensa. A Novara trova Silvio Piola. Quello che ha giocato con il Balilla Meazza. Campione del mondo in Francia, nel ’38. Al crepuscolo della carriera, ma, ancora capace, grazie agli assist del Petisso, di vivere un canto del cigno da fuoriclasse. Il guizzo da ala di Pesaola, ritrova l’estro antico nel gelo piemontese. Frizzante come il suo calcio. Il Novara si piazza ottavo, un risultato storico, mai più ottenuto dalla società blu scudata. Pesaola ritrova anche la gioia smarrita, con l’amore. Ornella, miss Novara, dalla bellezza leggendaria. La sposa, la amerà per sempre. Staranno assieme fino al 1985, quando lei lo lascerà solo. Tra mille sigarette e ricordi. Ed arriva Napoli. La folgorazione. Lauro lo prende al fianco di Jeppson, per 33 milioni. Al Petisso ne vanno 6. Un’ enormità, ma il comandante fa le cose in grande, vuole un grande Napoli. Lo avrà. Pesaola e Napoli, sono l’uno la pietra angolare dell’altro. L’argentino divora la fascia al ritmo di una tifoseria osannante. Costruisce la sua carriera calcistica autentica, nel capoluogo partenopeo. La città costruirà un entusiasmo nuovo, antico. Il Petisso crossa, Jeppson e poi Vinicio segnano. Il Vomero, il Collana, sono testimoni delle sue prodezze. Duecentoquaranta presenze. Le ultime nove, al San Paolo. Il tempo di inaugurarlo, nel 2 a 1 alla Juve, 6 dicembre 1959. Storia. E quando, a fine carriera, Napoli, la sua Napoli, quella dove vivrà fino alla fine, nella casa panoramica di Via Caravaggio, con affaccio sul San Paolo, che diventerà suo guardandolo dalla panchina, lo chiama ad allenare, Pesaola trova l’incastro. Nasce la leggenda dell’ uomo dal cappotto di cammello. Un capo elegante, preso a Parigi, dirà sempre. Glielo ruberanno, lo riacquisterà. Diverrà il suo simbolo eterno. Pesaola in panchina, l’uomo dall’ eterna sigaretta fumata fino al filtro.

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Pesaola Bruno

Sotto le tribune, sulle panche di legno, quell’ uomo dal profilo scaltro, i capelli nerissimi e l’aria mansuetamente rapace, costruisce il mito di un personaggio che Napoli amerà eternamente. Con alti e bassi, alterne fortune, ma che non scaveranno mai la tana dell’ insofferenza nel suo cuore innamorato di Napoli. Con lui gli azzurri vincono il primo trofeo della loro storia. La coppa Italia, 1962. Da cadetti, militando nella seconda divisione, la serie B. Nessuno ci è mai più riuscito. Corelli e Ronzon, i marcatori, nella serata romana contro la Spal. I nostri nonni ancora hanno gli occhi luccicanti. E la coppa delle Alpi. Una antenata della coppa Uefa. Con un aneddoto che è storia. Napoli e Juve appaiate, entrambe in classifica e zero a zero alla fine del primo tempo, nelle rispettive sfide contro squadre svizzere, in una delle ultime giornate del torneo. Il Petisso, che negli spogliatoi pungola Sivori raccontandogli di un inesistente vantaggio bianconero, e chiudendo la chiosa con un : “Vuoi Heriberto Herrera vinca la coppa al posto tuo”? La leggendaria diatriba tra l’Herrera meno famoso ed Omar, cacciato via dalla Juve proprio da Heriberto. Con Sivori che rientra in campo e si scatena. Il Napoli del secondo posto, prima volta nella storia del club. Quel cappotto di cammello, che si dice indossasse perfino in primavera inoltrata, come una macchia di luce scintillante sul prato. Un piccolo talismano cui affidare la speranza. Un cappotto che nel vento era come un tappeto volante su cui si adagiavano i sogni dei tifosi napoletani. Portati in giro nelle fantasie scudetto. Uno scudetto perso in dirittura, contro il Milan. Non tutte rose e fiori con il Napoli, nelle tre volte in cui Pesaola frequentò la panchina azzurra, in epoche diverse. In mezzo il tricolore vinto a Firenze, un piccolo incredibile miracolo irripetibile. La Fiorentina campione d’Italia nel ’69. Il Petisso alla guida. Pesaola il Napoli ed il ricordo di una retrocessione sanguinosa. Nel senso letterale del termine. Annata 62-63, ultima di campionato contro il Modena. Servono i due punti, invece gli emiliani passano al San Paolo, complice l’arbitraggio di Campanati, che verrà sospeso. Due a zero ed invasione di campo. Porte divelte, stadio semidistrutto. Ottanta milioni delle vecchie lire di danni. Cifra incredibile. Cariche della polizia. Centodiciassette feriti. Un morto. Campo squalificato per due anni, poi ridotti. Pesaola e la sua famiglia presi di mira. Anni di piombo romanticamente di piombi. Era ancora il Napoli di Lauro, candidato con il suo partito alle elezioni politiche. Si dice fosse lui il destinatario di quelle violenze, scatenate per screditarlo. Il football come mezzo elettorale. Tempi passati, andati via nascosti dentro un lembo di quel cappotto, nelle sue tasche, capaci di narrare storie di calcio sotto il Vesuvio rilegate nel libro della memoria del Petisso. Avvolte da nuvole di fumo. Come nella stagione 82-83, la salvezza che seppe di miracolo. Rino Marchesi che viene esonerato, lui, Pesaola, ed il suo cappotto assieme a Rambone a costruire una salvezza impossibile. Un girone di ritorno favoloso. Solo due sconfitte, sei vittorie, sette pareggi. Un ruolino da campioni. L’ ultima storia del Petisso. Tra un whisky ed un aneddoto, come a Bergamo, quando annunciò una partita d’assalto e fece invece le barricate, e ad un cronista che gli domandava del perché non avesse dato seguito alla annunciata partita da tourbillon, rispose con quella sua voce venata dallo strascico sudamericano “l’Atalanta mi ha rubato l’idea”. Pesaola, tra un sorriso ed una rivelazione “a la Domenica Sportiva per un bel po’ nella sigla iniziale ha conservato la sequenza di un mio gol a Matteucci, il portiere della Juve. Giocavo con il Novara, sa? “. Pesaola che si diceva si affacciasse dal terrazzo della sua casa, su via Caravaggio, indossando il cappotto di cammello e guardando verso il San Paolo, nel crepuscolo della sua vita. Con la sigaretta tra le dita, ed il fumo soffiato verso lo stadio. A portare sul prato i suoi ricordi, in quella nuvola. 

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