Un suo nipote con la maglia del Napoli, ecco il sogno di Careca

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Video, foto e ricordi lo aiutano a fare il lungo salto nel passato. «In questi mesi di stadi vuoti ripenso al nostro San Paolo, dove c’era una città a spingerci verso le vittorie». Ma Careca, uno dei più grandi bomber della storia, alla vigilia dei 60 anni – li compie lunedì – guarda anche al futuro. Con un sogno. «Che uno dei miei nipoti possa un giorno giocare nel Napoli».
Dal Brasile all’Europa c’è un silenzio spettrale negli stadi: quando potremo rivedere i tifosi?
«Loro sono una parte fondamentale del calcio. Ricordo il calore di quelli di Napoli, il posto più bello dove ho vissuto in 21 anni di carriera. Ma adesso bisogna avere pazienza e cautela perché questo virus mata, uccide. È una tragedia dovunque, molto grande in Brasile perché qui siamo in 210 milioni e ci sono stati oltre 4 milioni di casi. Sarebbe un rischio enorme riaprire gli stadi, perché è difficile disciplinare la passione della gente. Si deve aspettare il vaccino».
Il Brasile, la terra del calcio, oggi cosa é?
«È un Paese in cui ci sono club sul lastrico e squadre intere contagiate, come è accaduto al Flamengo al rientro dalla Coppa Libertadores. Eppure, questi ragazzi stanno in ritiro, non vanno nei bar a fare casino e a bere caipirinha».
San Paolo, una città e uno stadio nel suo destino.
«Io da sempre vivo a Campinas, a un’ora di auto da San Paolo. È stata la seconda squadra della mia carriera, non ne ho avute tante: tre in Brasile, una in Giappone e il Napoli. Sì, Napoli, il San Paolo, la passione di una città che sentivamo vicina ventiquattr’ore al giorno. Quando ti preparavi per una partita sapevi che avresti contato quella domenica su 80mila tifosi orgogliosi della loro squadra fortissima. È un amore straripante: a volte era anche difficile uscire per una passeggiata ma non l’ho mai sentito come un peso».
Un giorno d’inverno dell’87 cosa succede a San Paolo?
«Mi telefona Leo Junior, che giocava a Torino, e mi dice che il suo direttore sportivo Moggi è interessato a me. Poi Moggi si trasferisce al Napoli, la squadra di Maradona che sta per vincere lo scudetto. I dirigenti del San Paolo dovevano vendermi, e in fretta, e io fui chiaro: niente Inghilterra, niente Spagna, niente Francia, io voglio andare a Napoli. Perché c’è Maradona, perché quella città mi affascina».
Di Napoli cosa sapeva?
«Non c’era internet, il mio informatore era Gerardo Landulfo, un giornalista che lavorava a San Paolo come corrispondente del Guerin Sportivo. Ecco, leggendo su quel settimanale le pagine dedicate al Napoli e a Maradona capii che era il posto per me. Non mi sarei sbagliato: avrei vinto e quelle vittorie avrebbero avuto un’importanza particolare, infatti lo scudetto a Napoli ne vale dieci altrove».
Perché?
«In quegli anni a Napoli era tutto particolare, dai tifosi a Diego: un’atmosfera elettrizzante per un calciatore. Ricordo ancora il nostro primo incontro in ritiro. Maradona aveva avuto un permesso della società e non c’era stato nella prima settimana a Madonna di Campiglio, arrivò a Lodrone e mi abbracciò forte. Era il suo benvenuto, bastò quello per capire che Napoli sarebbe stata la mia seconda casa. Giocare al fianco di Diego era una gioia, sapevo che in ogni partita mi avrebbe dato almeno due palloni per segnare. Diventammo una coppia d’attacco conosciuta in tutto il mondo. Ma c’erano con noi tanti altri grandissimi, da Ciro (Ferrara) a Ciccio (Romano). E c’erano loro, gli 80mila che facevano in ogni partita la differenza».
Le vittorie possono avere un peso differente: qual è stata la più importante, lo scudetto o la Coppa Uefa?
«La Coppa Uefa fu un passo in avanti enorme per la società perché riuscimmo a far vincere il Napoli oltre i confini nazionali due anni dopo il primo scudetto. Fummo protagonisti in Francia, in Germania e battemmo la Juve ai quarti».
Avrebbe potuto vincere di più il Napoli di Careca e Maradona?
«Sì. Ma avevamo una squadra buona e una rosa corta, un problema per noi che giocavamo con grande intensità. È vero, nel 91 andò via Diego e si chiuse il suo ciclo ma intanto era venuto fuori Zola. I primi quattro anni a Napoli furono straordinari, poi rischiammo perfino la retrocessione nel 92».
Maradona, dopo aver vinto la Coppa Uefa, fu tentato dal Marsiglia. E Careca pensò mai di lasciare il Napoli?
«Io avevo firmato un contratto di due anni con un’opzione per il terzo. E proprio durante il secondo anno il mio procuratore Branchini mi disse che il Milan era interessato a me. Una notte ne parlai con Diego a casa sua, tra un bicchiere di cerveza e un piatto di asado gli confidai che c’era questa possibilità. Mi disse: resta a Napoli, vinciamo ancora e poi andiamo via insieme. Un patto. E conquistammo lo scudetto nel 90. Avrei potuto fare un’altra esperienza in Italia o in Europa, ma non mi sono mai pentito di essere rimasto fino al 93».
Tra la tripletta in casa della Juve nell’88 e il gol nella finale Uefa a Stoccarda sei mesi dopo, quale sceglie?
«Ho spiegato qual è stata l’importanza della coppa europea, rimasta l’unica nella storia del Napoli. I gol alla Juve e il 5-3 a Torino hanno avuto un significato altrettanto forte perché quella era la Partita per i napoletani: aveva un’importanza non solo calcistica perché loro rappresentavano anche il potere economico. Immaginate la felicità dei tifosi quando li eliminammo dalla Coppa Uefa, ribaltando lo 0-2 della partita d’andata con un gol al 119′. Mamma mia, che brividi».
Non è cambiato lo scenario, però: la Juve di oggi ha vinto 9 scudetti di fila.
«Alla Juve vanno riconosciute la forza economica e anche la capacità di rinnovarsi: vincono più di tutti in Italia perché hanno dirigenti e tecnici che scelgono i migliori calciatori. Vedo però qualcosa di nuovo. L’Inter è arrivata a un punto nello scorso campionato e questo non mi ha sorpreso perché ho conosciuto Conte quando allenava a Bari. Me lo presentò Perinetti, che era stato mio dirigente a Napoli, e bastò poco per capire quanta determinazione e quanta competenza avesse Antonio. E poi c’è un’altra straordinaria realtà: l’Atalanta, quanto corre e quanto gioca bene».
E il Napoli?
«Gattuso ha lo spirito giusto, è stato un campione del mondo e quel bagaglio di conoscenze può trasferirlo ai suoi giocatori. Mi auguro che De Laurentiis cominci a pensarla diversamente sul calcio, a non accontentarsi di arrivare secondo ma a spingere per vincere. Serve un salto di mentalità, l’ho detto anche a lui, che è un presidente capace e competente. Vincere lo scudetto a Napoli è il massimo per un dirigente, un allenatore, un calciatore».
La 9, la sua maglia, adesso la indossa un ventunenne nigeriano, Osimhen.
«L’ho visto. È veloce e alto, ha qualità, crescerà con l’aiuto di due grandi attaccanti come Mertens e Insigne. Auguro ad Osimhen di vincere e di essere felice a Napoli, come è accaduto a me, e di regalare grandi gioie al popolo napoletano».
Adesso cosa fa questo ragazzo di 60 anni dall’altra parte del mondo?
«Ragazzo… Il più piccolo dei miei figli, Thiago, ha 34 anni… Seguo le attività del mio centro a Campinas, dove organizziamo manifestazioni sportive ed eventi. Gioco a golf e tennis, do qualche consiglio su calciatori. Mi godo la famiglia e i nipoti. Per fare un bilancio della mia vita vorrei aspettare un’altra trentina di anni, intanto posso dire di avere avuto molto, soprattutto a Napoli, dove ho creato amicizie che hanno resistito al tempo».
Si faccia un augurio con un sogno.
«Ho tre nipoti: Luca, 7 anni, è ambidestro e veloce; Antonio, 4, è mancino e poi c’è Matehus, che ha un anno. Vorrei che uno dei tre diventasse un calciatore di alto livello e magari a Napoli. E lo accompagnerei io, tornando a viverci per sempre».

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F. De Luca (Il Mattino)

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