Bianchi, un coro: «In cinquant’anni di calcio è il ricordo più commovente che ho»

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Ottavio Bianchi ha scelto maggio – giovedì 14 – per l’uscita dell’autobiografia «Sopra il vulcano: il campo, lo scudetto, la vita», scritta con la figlia Camilla, giornalista dell’Eco di Bergamo che ha raccolto i ricordi del padre. Abbiamo estrapolato uno dei tanti capitoli:

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Bianchi non è rimasto affettivamente legato solo alla festa per lo scudetto vinto nell’87 ma anche alla manifestazione dei tifosi dopo quello perso nell’88: al San Paolo gridarono «Ottavio Ottavio» e «in cinquant’anni di calcio è il ricordo più commovente che conservo dentro di me». I rapporti con i napoletani sono stati di profondo rispetto e reciproca gratitudine. E le pressioni? Un giorno arrivò una telefonata anonima in hotel: «Faccia giocare…». Lui, quel calciatore, lo mandò in tribuna. 
La mediocre aneddotica non c’è in questo bel libro, scritto a due cuori prima che scoppiasse la tragedia del Coronavirus, quella per la quale il 76enne mister Bianchi si è chiuso in casa tremando per le sirene delle ambulanze e pregando per i morti di Bergamo. Ottavio ricorda il suo primo giorno nel 66 a Napoli, tra traffico e cumuli di spazzatura. Questa città l’uomo del Nord l’ha sempre accarezzata, fin da quando era calciatore e viveva con i compagni Nardin e Micelli in un appartamento di via Petrarca. Poi arrivò la famiglia e, quando giunse il momento di fare le valigie perché così aveva deciso Ferlaino («Si liberò del sindacalista»: ma poi il presidente lo chiamò, quando giocava a Cagliari, affinché chiedesse a Gigi Riva di trasferirsi al Napoli), un amico gli disse: «Tornerai qui e vinceremo lo scudetto». La lezione di quegli anni da calciatore – al fianco di Altafini, Juliano e Sivori nel Napoli bello ma non vincente – gli sarebbe servita da allenatore. Spiegò ad Allodi che non sarebbe bastato Diego: «In quella incredibile città si passa dall’esaltazione allo scoramento in un battito di ciglia. La teoria del lavoro e del sacrificio come la intendo io non è mai stata di casa. Per ottenere un risultato si deve lavorare un anno, non una settimana. La squadra deve dipendere solo da me. La mia conduzione sarà terroristica».
Bianchi aveva avuto Pesaola come primo allenatore a Napoli e, quando tornò, lo incontrava a cena alla «Sacrestia». Il Petisso era un maestro di comunicazione, ma non funzionarono le sue lezioni con quell’allievo, sempre laconico con i cronisti. Nel libro mai citato Luciano Moggi, dg del Napoli dall’87 all’89: erano incompatibili. Ottavio ricorda ragazzi come De Napoli che lanciò ad Avellino e Fabio Cannavaro che gli fu segnalato nel 92 dal magazziniere Tonino Albano, suo ex compagno. Del periodo ad Avellino ricostruisce lo scontro con un temuto gruppo di tifosi, il clan dei macellai. Uno di loro, un giorno, mostrò la pistola negli spogliatoi: «Così non va, se le cose non cambiano sono guai». La squadra rischiava la retrocessione. Bianchi ebbe un sussulto: «Io vado via». Gli chiesero scusa e l’Avellino si salvò. E poi l’incontro con Antonio Sibilia, il padrone della squadra agli arresti domiciliari. L’allenatore andò a trovarlo in clinica e don Antonio, dopo aver chiesto ai due poliziotti che lo piantonavano di lasciarli da soli, accusò i giocatori: «Questi stronzi si vendono le partite».
A Napoli l’uomo del Nord ha vinto e ha ricevuto una lezione. «Il dono più grande: saper prendere la vita come viene, nel bene e nel male. E ho fatto mia la massima San Genna’ futtitenne». Tra i ricordi di Camilla c’è la telefonata dagli spogliatoi del San Paolo il 10 maggio 87. «Campioni» le urlò il papà e la ragazza passò la cornetta alla madre: dagli occhi lucidi di Maria Mercede capì che mister Bianchi aveva finalmente tolto la maschera.

A Cura di Francesco De Luca (Il Mattino)

 

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