Amarcord – Rubrica di Stefano Iaconis: “Era quel tempo”

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Era il tempo dei corrimani. All’ingresso dello stadio. Gli antenati dei tornelli. Si entrava in due con un solo abbonamento. Padre e figlio. Si camminava in fila sperando che due settimane non avessero cambiato nulla. Che il figlio non fosse cresciuto. Emozionati come si dovesse andare in scena. Perché l’altezza del ragazzino non doveva superare la sbarra metallica di quel corrimano. Altrimenti si pagava il “ridotto”. Era il tempo in cui il San Paolo appariva come un antico tempio in pietra. Esposto. Con il cielo che rifletteva il medesimo azzurro riflesso dal suo prato. E file e file di gradoni battuti dal sole. O dalla pioggia. I sediolini delle tribune sbeccati. Per l’antica usanza di assistere alla partita in piedi. Anche se davanti non c’era nessuno a coprire la visuale. Perché un rito è un rito. Un tempio allagato d’azzurro. Con le balaustre dalle quali centinaia di vessilli facevano mostra di sé. Quelle dei club. Come drappi di legioni romane innalzate orgogliosamente. Era il tempo dei venditori di bibite sugli spalti. In giallo. Baffi spioventi, la voce tonante. Era il tempo dei caffè Borghetti. Attesi. Durante l’intervallo. Commentando. Bottiglie minuscole in plastica lanciate da una fila all’altra dei gradoni, dagli omini in giallo dalla voce tenorile. Che la udivi arrivare da lontanissimo. Perché quando lo stadio era gremito era impossibile il passaggio. Ed allora il caffè, un gelato, passavano di mano in mano. Fino ad arrivare laggiù, dove l’ uomo ed il bambino attendevano. E poi i soldi per pagarli. Che facevano il percorso inverso. Ancora di mano in mano. Solidarietà da stadio. Era il tempo delle maglie azzurre infeltrite. Sempre troppo attillate. Che quando pioveva si appiccicavano addosso. Come una seconda pelle. Il tempo dell’anonimato. Che solo i numeri sulla schiena rivelavano. O le movenze dei calciatori. Le gambe larghe di Savoldi. La postura elegante di Iuliano. L’ inconfondibile Canè. Il povero Peppe Massa. E i riccioli di Ruud Krol. Erano i tempi del pallone a spicchi. E dell’arbitro in nero. Da contestare con salve di fischi, e piccoli cori dileggiatori che oggi fanno sorridere. Il tempo delle voci dei maestri del racconto evocate dalle radioline. Che quando il Napoli era campo principale, pareva una festa. Il tempo dei secondi 45 minuti trasmessi in TV alle 19. Al crepuscolo della domenica. E chiudevi i rapporti con il mondo. Ti sbarravi nella stanza a doppia mandata. Per non sapere il risultato. Perché magari gli azzurri sfidavano la Juve. O il Milan. E ti mettevi comodo, trepidante. Come fosse in diretta. Erano i tempi in cui una volta, all’Olimpico, si cercò di far entrare un asino vestito di azzurro. Completamente. Per il tradizionale giro di campo. Con quelli che oggi si chiamerebbero stewards, che ridevano attoniti. Il ciuco entrò. Perché non avrebbe dovuto, poi? E fece il giro di campo. Era un Roma-Napoli. Vinsero i giallorossi, due a uno. Ma vinse anche il proprietario del ciuco. Immortalato sotto la nord con i soliti diecimila al seguito che intonavano “oje vita mia”. Perché era il tempo di “oje vita mia”. Che oggi non c’è più. Sostituito da altri cori. Da altre maglie. Da altri palloni. Ed altri numeri sulla schiena. Il 53. Il 77. Il 99. No, non è più come era una volta. Come era in quel tempo. Credetelo. Quel tempo, era un gran bel tempo.

Factory della Comunicazione

a cura di Stefano Iaconis

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