Roberto Saviano: “Soffro senza lo stadio, torno con la maglia di Kvara. Spalletti? Ha imposto la sua ossessione per il gruppo”

Il nostro scrittore di "Gomorra" intervistato dalla Gazzetta dello Sport

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Nel maggio 2006 usciva «Gomorra», bestseller da 10 milioni di copie, tradotto in 52 Paesi, diventato poi film e serie tv. Nell’ottobre successivo, Roberto Saviano, l’autore, minacciato dalla Camorra, cominciava la sua vita sotto scorta. Nella violenta sforbiciata alla liberta è rientrato anche il calcio. In 16 anni Saviano non è più tornato al San Paolo, dove, bambino, seguiva Maradona seduto sulle gambe del padre. Il Napoli capolista sta per affrontare l’Inter in una partita chiave. Ne parliamo con lo scrittore-giornalista. Partendo da Pelé.

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Saviano, chi era il Re del calcio, per lei?«Pelé è stato, è, un calciatore nero, nero ebano, non mulatto, discendente degli schiavi africani deportati in Brasile, che fa alzare in piedi milioni di persone, mentre nel resto del mondo ai neri è proibito sposare bianchi, frequentare gli stessi bagni, le stesse scuole. Una rivoluzione che oggi non viene percepita nella sua potenza davanti alla grandezza del mito sportivo. Il lustrascarpe che prende la strada dello sport come strada di riscatto, cosa all’epoca affatto scontata. Per me Pelé è soprattutto questo».

Ma a Napoli cantano: «Meglio Diego»«Argentina-Italia, semifinale di Italia 90. Ero al San Paolo con mio padre. A un certo punto, dopo il vantaggio di Schillaci, la parte non napoletana dello stadio comincia a fischiare Diego e a insultarlo ogni volta che tocca la palla. Allora tutta la curva fa sparire le bandiere tricolori, compresa la mia, e comincia a urlare: “Diego! Diego!”. Non capivo. Ero un bambino di 11 anni con un’asta di plastica in mano. Tutti si identificavano con Maradona, nessuno con l’Italia che, a parte De Napoli in panca e Ferrara e Carnevale in panca, era composta da juventini e rivali storici. Lasciai lo stadio felice. Aveva vinto Diego. Non lo dimenticherò mai, come il famoso Napoli-Verona».

San Paolo, 20 ottobre 1985. «Quando il Napoli si avvicinava alla porta, io scendevo dalle gambe di mio padre, lui si alzava e seguivamo l’azione. Diego segnò da metà campo, mio padre si alzò di scatto, io volai via e presi una facciata per terra».

Con Pelé è morto un po’ anche il Super Santos…«Il pallone arancione e nero che ho amato di più da bambino, anche sei il Tango, simile a quello di cuoio, era il mito, raggiunto tardi, a 14 anni. Il Super Santos che ho calciato in ogni spazio possibile era un capolavoro dell’industria italiana: alta qualità, prezzo contenuto e non volava via come il Super Tele».

Che calciatore era?  «La grande delusione di mio padre, malato di calcio. Il calcio è mio padre, il rapporto con lui, il silenzio sacro, l’ansia, lui non è in grado di assistere a un rigore, o dà le spalle alla tv o lascia la stanza… Mio padre setacciava punti di forza che non avevo. Mi piaceva stare in attacco, ma non avevo i piedi buoni, in difesa ero una pippa perché entravo sui piedi e non sulla palla, in porta avevo paura delle pallonate. Mi salvavo con certi tiri di piatto all’incrocio. Ma vedevo la delusione negli occhi di mio padre. Ricordo una partita in Germania, facevo l’Erasmus».

Dove? «Dusseldorf. Formano le squadre e tutti mi vogliono, perché italiano e di Napoli, doppia garanzia. Io li avviso: “Non sono forte”. Risposta: “Un non forte di Napoli è cento volte più forte di un tedesco”. Il calcio più mi ha appassionato è quello di strada e nelle città del sud del mondo lo giocano tutti in strada».

Non abbiamo più talenti, anche perché i nostri ragazzi giocano di meno in strada, dicono. «Io credo invece che la mancanza di uno ius soli sia determinante. Un ragazzino di talento che non ha la prospettiva di avere la cittadinanza, va via. Siamo incapaci di fare dello sport uno strumento di integrazione, come fa la Germania, per esempio. Lo ha dimostrato con l’ondata del milione di siriani. Noi siamo lo sketch di Checco Zalone che seleziona i migranti al confine e fa entrare chi palleggia meglio».

In «Cuore puro», Dario che fa la sentinella in una piazza di droga, tradisce il Sistema perché invece di lanciare l’allarme all’arrivo della Polizia, continua a inseguire il gol. Viene punito, ma poi è l’unico tra gli amici che si salva. Lo sport salva? «Lo sport ti salva tenendoti occupato, lontano dalla noia, dalla violenza, dalle salette dei videogames e dei biliardo, dove la criminalità arruola “muschilli”. Il calcio di strada ti salva anche se non ti fa diventare un campione, perché ti impegna».

«Gomorra» è uscito nel 2006, l’estate di Calciopoli; «Cuore puro» ora, nella bufera delle plusvalenze. Quanto è puro il cuore del calcio? «A parlarne si rischia di apparire cialtroni o mitomani. Impossibile discutere dei soldi riciclati nel calcio dalla criminalità organizzata che pure è importantissimo. Le curve spesso sono hub di narcotraffico evidenti. Non è un caso che diversi noti narcotrafficanti siano capi ultrà. Non c’è mai stata un’inchiesta vera. L’unica quella che stava conducendo il p.m. Narducci a Napoli che portò a Calciopoli, ma fu bloccata, perché non mirava a denunciare brogli, ma voleva dimostrare come il denaro veniva lavato nei club, anche attraverso la cessione di giocatori. Il calcio è inattaccabile».

13 ottobre 2006, inizia la sua vita senza libertà. In questi anni, quante volte è stato in uno stadio?«Una, a Barcellona, ospite di Manel Estiarte, il Maradona della pallanuoto. Conobbi Messi che mi chiese subito: “Davvero sei di Napoli?”. Mi sistemarono in un cubo antiproiettile. E poi una volta sono stato al San Paolo, ma vuoto, con Daniel Pennac arrivato per un documentario su Maradona. Andai a sedermi in curva, da dove avevo assistito a Italia-Argentina da bambino».

Quanto le manca il San Paolo pieno con questo Napoli dentro? «Non poterci andare mi fa soffrire. Faccio fatica a chiamarlo stadio Maradona, temo di esser troppo vecchio e continuerò a chiamarlo San Paolo. Ma prima della fine del campionato voglio andarci. Sto pensando come essere invisibile perché il Napoli dovrà vincere, altrimenti se la prima volta che torno allo stadio fa male, poi si nota… ed è malamente».

Le piace questo Napoli? «Moltissimo, per lo spirito con cui gioca. Si vede che si diverte, che è un gruppo in armonia. Non c’è un leader che detta la sua linea e comanda. Sono rappresentate tantissime nazionalità, lo spogliatoio trasmette l’idea di comunità. Io lo vedo come un Napoli internazionalista, accogliente e libertario, contro il populismo scontato dell’individualità».

Spalletti ha dei meriti.«Mourinho e Zeman? No, il vero filosofo del calcio è uno solo: Luciano Spalletti. Non a parole, ma nell’applicazione di un’idea. Ha imposto la sua ossessione per il gruppo, con alternanze tipo Raspa-Simeone che mantengono tutti in equilibrio. Ha costruito una squadra vera, è l’anti CR7, l’anti-Messi».

Il giocatore preferito? «Kvaratskhelia. Mio padre me lo aveva segnalato prima che ci pensasse il Napoli. Lo aveva visto nell’Under 21. Mi piace perché non ha la faccia del calciatore, ma di un bambino timido che gioca in strada. E poi perché giocava in Russia, e alla scoppio della guerra è tornato in patria, anche a costo di perdere le chiamate dei ricchi club tedeschi. Il Napoli è stato bravo a inserirsi. Per me Kvara è uno che ha detto no a Putin, anche se non parla mai delle pressioni subite quand’era al Rubin Kazan».

Osimhen?«Mi entusiasma anche lui. Quando lo picchiano, i napoletani dicono “Bbuono…”, cioè “Meglio così”, perché sanno che così si carica. Anche lui ha una corsa allegra, da ragazzo di strada, va in fuorigioco per troppa passione. La maschera lo ha reso più iconico. Kim mi ha fatto impazzire quando ha chiesto scusa dopo un errore contro l’Udinese. Dovremmo ringraziarlo e lui chiede scusa».

Cosa teme da qui allo scudetto? «Da tifoso: che non ce lo facciano vincere… Che si metta in moto la grande macchina che spinge le squadre del Nord. Seconda paura: come ripartiremo dopo il Mondiale. C’è solo una cosa peggiore degli infortuni: stare fermi. Con l’Inter, gara chiave, scopriremo se siamo quelli di prima».

Chi teme di più? «Il Milan per me è l’avversario numero uno. Forse per i miei antichi incubi da bambino che temeva Gullit e Van Basten. La Juve mi preoccupa meno. Credo che sarà frenata dai problemi societari».

Saviano, con che maglia al Maradona? Scelga. «Quella di Kvara che ha detto no a Putin».

Fonte: Gazzetta

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