Gabriele Gravina: “Peccato per Insigne. Non va via a cuor leggero”

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Gabriele Gravina: il calcio e la pandemia, i ristori, i play off, la Nazionale, il caso Insigne. L’intervista del presidente della Figc al CdS: 

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E la pandemia che cos’è, dopo due anni di slalom tra contagi, divieti e conflitti? «Una montagna che iniziamo a scalare – risponde il presidente della Figc -. Il protocollo sanitario è una vittoria. La soglia del 35 per cento di contagiati ci pone al riparo da divieti difformi delle singole Asl. Non accadrà più che si giochi con undici positivi e si resti bloccati per tre. È una garanzia che il virus non intaccherà d’ora in poi la regolarità della competizione».

Ma dal governo avete qualche garanzia sulla riapertura degli stadi? «La garanzia è il dialogo istituzionale. Il limite dei cinquemila spettatori è stato un atto di responsabilità. L’auspicio è che, usciti tutti vaccinati dal picco, si torni a una capienza del cento per cento. Il calcio si confermerebbe apripista della sicurezza e della normalità».
Non tutto è andato per il meglio. I contagi di Natale dimostrano che la serie A ha dimenticato troppo presto le bolle e le cautele, non le pare? «No, al 20 dicembre avevamo un numero di casi inferiore ad altri settori. Il rompete le righe delle vacanze li ha fatti crescere, ma è anche vero che i ragazzi coinvolti si sono negativizzati in pochi giorni».

Il campionato ha perso partite e pubblico. Se i ristori non arrivano? «Non può accadere. Il calcio traina l’economia, coinvolge dodici settori merceologici diversi, vale una percentuale importante del pil e produce un gettito fiscale di oltre un miliardo. Merita almeno la stessa dignità di settori come cinema e teatro».

Malagò chiede che si valuti l’entità esatta del danno. Condivide? «I conti li ha già fatti una società di revisione. Manca un miliardo. Si tratta di accordarsi sulle modalità».

Ma il calcio è entrato nella pandemia con quattro miliardi di debiti, e in questi due anni ha continuato a farli. Il Genoa ha licenziato il quinto allenatore in due anni, dopo avergli concesso un triennale da due milioni e mezzo a stagione. «Il Covid ci ha colto nel pieno di una tensione finanziaria. Ma quei debiti sono stati sempre coperti da finanziamenti infruttiferi e postergati, cioè forme di ricapitalizzazione delle proprietà. Il Genoa a Natale ha versato decine di milioni di capitali freschi. Questo per dire che il calcio ha messo il suo. Però è vero che far crescere i costi mentre i ricavi calano vuol dire mettere a repentaglio il sistema. Questo mi preoccupa quanto lei».

In un’intervista al Financial Times il presidente della Fiorentina, Rocco Commisso, sostiene che Juve e Inter hanno vinto facendo leva irresponsabilmente sulla leva del debito. Ha ragione? «No, perché per fare mercato bisogna rientrare in precisi indici di liquidità. Un conto è allarmarsi per il debito, un altro è dire che uno vince perché ha barato. E stendo un velo pietoso sui giudizi morali che Commisso dà della classe dirigente. Dopodiché dobbiamo mettere il sistema in sicurezza. Le norme da noi già varate riducono il margine di investimento a debito, vincolandolo sui ricavi. Le renderemo ancora più stringenti. Anche per fugare sospetti e illazioni che fanno male allo sport». 

Ma la classe dirigente del calcio è all’altezza? «Direi che la formazione dirigenziale è eterogenea. C’è di tutto. Dobbiamo crescere se vogliamo valorizzare il nostro prodotto. Qualche anno fa eravamo secondi tra le Leghe top come valore di produzione, oggi siamo quarti. Altri sono andati avanti, noi siamo rimasti fermi. Dobbiamo capire che ogni scelta, ma anche ogni parola, ogni gesto hanno un impatto economico sul sistema. Continuo per esempio a pensare che il nostro calcio sia migliore di come noi stessi lo raccontiamo».

Gli stranieri ci stanno colonizzando? «Ma perché mai? La globalizzazione non è restare chiusi nell’orticello. Ben venga chi può portare liquidità e cultura sportiva».

Ma perché la grande impresa italiana gira al largo? «Perché non siamo ancora un sistema sostenibile. La cronicizzazione del disavanzo non aiuta».

Due procure indagano su Juve e Inter, ma non sono certo solo loro a fare plusvalenze. Teme una slavina? «Le plusvalenze fanno parte della vita attiva dell’impresa. Vanno perseguite quelle truffaldine. Aspettiamo che la magistratura chiarisca, ma non facciamo di tutta l’erba un fascio. Poi stiamo studiando se eliminare le plusvalenze dagli indicatori di bilancio per autorizzare nuovi investimenti sportivi».

Perché non stimare il valore reale di un calciatore misurando con un algoritmo età, esperienze maturate, qualità della prestazione e durata dei contratti? «Ci sta provando la Fifa, ma non credo sia realizzabile. Gli indicatori che l’algoritmo considera sono sempre frutto di scelte soggettive. Chi mi può impedire di spendere cento milioni per un sedicenne intuendo che sarà il nuovo Messi? La soluzione è un’altra. Scindere le plusvalenze reali con movimenti di finanza dagli scambi di figurine a costo zero. E poi ridurne l’impatto sui bilanci».

Come ci si difende dai procuratori monstre? «Bisognerebbe chiederlo a quei presidenti che sono accondiscendenti con loro. Diventano così ricchi e potenti perché qualcuno li paga. La Figc è stata la prima federazione a proporre un principio di controllo su provvigioni e intermediazioni. Ma serve una decisione internazionale della Fifa. Altrimenti se io pongo un tetto, non faccio che favorire il mercato straniero».

Infantino punta al 3 per cento. «È la nostra proposta, ma deve valere per tutti».

Ma è possibile rappresentare due o tre parti allo stesso tavolo? «No, serve una disciplina rigida. Il caso Vlahovic è emblematico. Non si definisce la cessione perché non si accontenta il procuratore. Credo che, al punto in cui siamo arrivati, dovremmo rimettere mano alla legge Bosman e prevedere un parametro legato alla valorizzazione del calciatore da parte di un club. Qui ha ragione Commisso, quando dice che il suo centravanti deve essere grato alla Viola. Altrimenti nessuno investe più nella formazione di un campione».

La riforma dei campionati si è arenata tra i veti della Lega e gli incerti della pandemia? «No, aspetto che si compongano i nuovi organi della Lega Dilettanti, poi si parte. Entro il 30 giugno si cambia. Dobbiamo mettere in sicurezza il sistema, vuol dire puntare alla sua sostenibilità».

E l’appetibilità? Tra poche giornate potremmo già sapere chi ha vinto, chi retrocede e forse anche chi va in Champions. E poi chiuderemo ancora una volta un campionato con troppe partite dove si gioca per nulla. Insomma, i playoff? «È il momento di provare. Negli anni Novanta nessuno credeva ai tre punti per la vittoria, e invece ha funzionato. I playoff in Lega Pro e in Serie B sono una garanzia di visibilità e un successo. Sarebbe un errore non testarli anche in Serie A, salvaguardando comunque il valore del merito sportivo raggiunto in classifica. Ma ci vuole una riforma, che riduca le squadre e modifichi il format. Ne guadagnerebbero qualità e competizione».

Gli arbitri sbagliano ancora e troppo. L’errore di Serra in Milan-Spezia suona come uno schiaffo alla regolarità della corsa per lo scudetto «C’è stato un grande cambiamento, Rocchi ha messo in campo tanti giovani. Sono prezzi da pagare, ma i risultati arrivano. Gli errori si sono ridotti ancora. La tecnologia ci aiuta. Qualcuno forse dimentica che non si sbaglia più un fuorigioco. Voglio aggiungere che ho molto apprezzato la reazione umana dei giocatori milanisti dopo l’errore, è un esempio di sportività».

Però è caduto nel vuoto il suo appello a verificare al Var tutte le decisioni dubbie. Gli arbitri mostrano un’idiosincrasia per la tecnologia? «Ribadisco l’invito, il Var c’è per essere usato tutte le volte in cui può aiutare. Poi occorre separare le carriere e la formazione professionale in maniera netta: l’arbitro in campo è un profilo diverso dal collega davanti all’occhio elettronico. E da ultimo bisogna tutti studiare meglio il regolamento, e questo vale anche per i club».

Il challenge è caduto nel dimenticatoio prima di essere testato? Sarà che non piace a Collina? «Noi l’abbiamo proposto, la sua contrarietà è motivata dal fatto che tutti gli episodi vengono visti dagli arbitri. Io penso che dare un paio di chiamate all’allenatore fugherebbe quei sospetti che continuano a inquinare il dibattito sul calcio giocato». 

La Salernitana a Iervolino è stato un esito onorevole? «Una forma di rispetto verso la città. Adesso tocca a Bari e Mantova. Le proprietà di Napoli e Verona hanno due anni per vendere, a prescindere dai campionati in cui si milita. È una scelta per scongiurare commistioni e conflitti di interesse».

La sua dirigenza inizia con il tonfo della Nazionale di Ventura. Teme che una nuova esclusione dal Mondiale possa metterla in discussione? «Neanche per sogno. Se tutto dipendesse dai risultati, la vittoria agli Europei varrebbe quanto un bonus di quattro anni. Ma non tiro io i calci di rigore. Il sistema che ho trovato non aveva prospettive. Oggi siamo nel cuore di un rinnovamento che non si fermerà, a prescindere dai risultati. Certo, mi dispiacerebbe non centrare il risultato, ma non sono preoccupato per me. Vado avanti». 

Però il rischio di restare fuori non è basso. Se l’Italia esce, Mancini lascia? «Questo lo valuteremo insieme, ma il percorso avviato con Roberto non è legato a un singolo risultato. C’è un progetto che ha già dato risposte importanti, in termini di entusiasmo e rilancio dell’immagine della Nazionale».

Non sente attorno a sé aria di sfiducia? «Sì, c’è un po’ di scetticismo. Ma lo sfidiamo stando insieme. Io ci credo. Ci vediamo a fine mese e facciamo gruppo, come sappiamo fare noi».

Ma Mancini non ha sbagliato pensando che “squadra che vince non si cambia”? Doveva continuare a osare di più? «Aveva una squadra molto forte, l’ha difesa. E non mi sembra che il campionato abbia fornito molte alternative. Lui ha in animo di inserire altri professionisti. Ma sotto spareggio non è facile. Ho fiducia nelle scelte che farà».

L’infortunio di Chiesa la preoccupa? Può essere Zaniolo il suo sostituto? «Mi preoccupa e mi dispiace. È come se la fortuna ci chiedesse il conto del nostro successo agli Europei. Quanto a Nicolò, Mancini ci ha sempre creduto. È tornato al massimo, lui lo sta seguendo».

Joao Pedro e Luiz Felipe entrano in corsa? «Decide il ct. Per noi sono azzurri».

Che ha provato nel sapere che Insigne va in Canada? «Un grande dispiacere. L’ho visto crescere a Pescara nel trio delle meraviglie, con Verratti e Immobile. Saperlo in un campionato lontano mette tristezza. Ho parlato con lui e non mi sembra che ci vada a cuor leggero. Ma nelle scelte di vita talvolta la prosa prevale sulla poesia. È finita così». 

A. Barbano (CdS)

 

 

 

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