Amarcord – Rubrica di Stefano Iaconis: ” ‘O mistèr”

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“Mistèr, pigliateve ‘na sfugliatella. Mistèr, ‘o cafè ve l’ avite pigliato?” William Garbutt, “l’inglese” arrivato da Roma, discende via Chiaia, le mani nel paletot color cammello, regalo natalizio del presidentissimo del Napoli, Ascarelli, la pipa di schiuma spenta, perennemente pendula all’angolo della bocca, ed il basco calcato sul capo. Sorride, fa cenni, mentre stringe una mano, si ferma per un saluto, china il capo con deferenza anglosassone di fronte ad una donna che volge verso di lui la graziosa testolina in un gesto civettuolo. Garbutt a Napoli è un re. Ha trovato il sole, lui che viene da Hazel Grove, nell’area metropolitana di Manchester, dove il sole non si vede quasi mai, e poi da Genova, la città nella quale il vento fischia forte, nei pomeriggi di inverno. Qui ogni cosa ha un profumo diverso. Anche il vento, che accarezza e non sferza, oppure il crepuscolo, che avvolge, senza opprimere. Mister Garbutt è stato campione d’Italia tre volte, con il Genoa. La sua carriera calcistica è terminata in un burrascoso pomeriggio inglese di Blackburn, nel profondo nord inglese, durante una partita contro il Manchester. Una torsione brusca del ginocchio, la rottura totale dei legamenti, mentre eseguiva uno dei suoi dribbling, quelli che amava inseguire sul prato verde. Ad appena ventotto anni. Si era trasferito a Genova, a lavorare al porto. E lì si era fatto notare allestendo una squadra di portuali che si era distinta perfino in una partita contro il Genoa football and cricket club. Quello di De Vecchi, per capirci. Il grande Genoa. Due a uno, con i portuali battuti, ma non umiliati. E proprio il Genoa, ammirato, lo aveva assunto, come allenatore. Come mister, come impararono a chiamarlo i suoi giocatori. Quindici anni con i rossoblù, tre scudetti, ed una leggenda cucita addosso. Quella di profondo innovatore in un calcio, quello italiano, che lui fece diventare football. Gioco d’attacco. Le due ali, addestrate a giocare con ambo i piedi, in un lavorìo continuo sul campo, a cercare il fondo. Il colpo di testa curato in maniera maniacale, con calciatori sottoposti a metodi di allenamento durissimi, ossessionanti. Ascarelli con in testa un’ idea brillante, quella di portare il calcio a Napoli, lo aveva prelevato dalla, Roma dove era approdato finita l’esperienza in Liguria. Ascarelli, con tutta la sua convincente napoletanità, si era infilato in un treno, lo aveva incontrato, ed invitato a Napoli per un giorno. Un giro sul lungomare, una colazione con Piazza Municipio di fronte, inondata dal sole, e dal passeggio di un oceano di persone, in un pomeriggio di maggio, e quell’ idea radicata nella testa. Il Napoli in prima divisione, a sfidare il grande calcio del nord. E così il football si era trasferito all’ombra del Vesuvio. Sallustro, Vojak, acquisti lussuosi per una squadra che aveva travolto la città, e le aveva regalato l’amore per il pallone. “Mistèr, pigliateve ‘o cafe’, jamme, faciteve na fotografia, ‘o guaglione è tifoso do Napule assai”. Garbutt, ‘ o Mistèr si ferma. Un capannello di gente intorno, mentre sorride, le mani nel paletot, la pipa di schiuma all’angolo della bocca, il sole in faccia. Da nessuna parte, c’è un sole così, pensa, mentre stringe mani, e pensa all’allenamento del pomeriggio. Domenica c’è l’Ambrosiana. Quella di Meazza. Garbutt guarda in su, mentre nella mente snocciola la formazione, immaginando una partita, che solo lui vede.

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di Stefano Iaconis

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