L’arbitro Gavillucci: «Var, il protocollo è poco chiaro le interpretazioni possono variare»

L'ex arbitro di Latina parla della questione VAR e del suo protocollo

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Non ha mai fischiato in Serie A negli ultimi tre anni, eppure gli appassionati italiani conoscono bene il nome di Claudio Gavillucci. Il fischietto di Latina, classe 1979, non si vede sui campi italiani dal 2018, eppure non smette di seguire con passione le vicende del calcio di casa nostra e di un mondo – quello arbitrale – via via sempre più protagonista tra le polemiche dei tifosi e la scure del VAR a quattro anni dal suo battesimo. «È stata una stagione a due facce: a inizio anno ho visto utilizzare il VAR in poche occasioni, poi c’è stata un’inversione di tendenza» ha raccontato ai nostri microfoni. «È la prova di quanto l’applicazione dello strumento non sia fissa, ma cambi in base a quello che accade. Ed è giusto così». 

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L’ULTIMA STAGIONE

 

Anche nella stagione appena conclusa il VAR è finito sotto accusa per tanti tifosi italiani. «Il protocollo del suo utilizzo è chiaro: ci sono delle aree di intervento – i gol segnati, le condotte violente e gravi, gli scambi di identità – in cui può essere applicato. Ma spesso dimentichiamo che il protocollo e la sua applicazione sono due cose diverse» ci tiene a specificare. E perché? «Un po’ come accade nel diritto, c’è la legge e c’è chi la deve interpretare e applicare. Così è il VAR. Il protocollo definisce l’area di intervento, ma l’applicazione è soggettiva, dovuta alle indicazioni ricevute dagli arbitri stagione per stagione. E cambia anche di Paese in Paese: il protocollo, ad esempio, è lo stesso in Serie A e in Premier League, eppure lo stile di gioco italiano è differente da quello inglese, per questo anche l’uso del VAR lo sarà».

Ma usare il VAR è un merito o un difetto per un arbitro? «Ricordo molto bene quando ci fu presentato per la prima volta nella stagione 2017/18. Le prime parole usate furono: Minime interferenze (col gioco) per il massimo beneficio (del gioco).  Insomma, il VAR è uno strumento che si applica quando si deve e per il bene di tutti. Facile». Più a dirsi che a farsi, se usarlo può essere una colpa dell’arbitro. «Dalla mia esperienza, posso dire che non c’è alcuna pressione sugli arbitri nell’utilizzo dello strumento, ma mi è capitato in diverse occasioni di ricevere voti bassi dopo averlo consultato per correggere magari una mia decisione che era stata sbagliata. Questo indirettamente condiziona chi arbitra». Sfociando, poi, nell’errore di qualcuno. «Di Pjanic-Orsato ho già parlato molte volte, non analizzammo quell’episodio con gli altri arbitri dopo quella partita. Ma fu una gara sfortunata, è superfluo dirlo. E poi Orsato ha ammesso di aver sbagliato la chiamata, forse l’ha fatto solo troppo tardi». 


IL NUOVO CORSO AIA

E questa svolta dei fischietti in tv può dare una mano: «Sono sempre stato favorevole a lasciare spazio agli arbitri, l’ho detto più volte e ho dedicato un intero capitolo alla questione anche nel mio libro – L’uomo nero. La verità di un arbitro scomodo del 2020 -. Applaudo Trentalange e Baglioni per aver mandato in tv Orsato, serve coraggio a cambiare le cose. Faccio i complimenti anche a Orsato»

Il nuovo corso AIA cominciato a febbraio dove può arrivare? «Le iniziative dei primi mesi sono state molto positive, sono subito passati dalle parole ai fatti. Forse avrei preferito più chiarezza riguardo ad alcuni episodi del passato, ma spero possa migliorare anche questo. Si è arrivati al punto in cui l’AIA deve fare una scelta: staccarsi da Federazione e Lega per diventare autonomi a tutti gli effetti, legalmente ed economicamente, oppure assoggettarsi alla Federazione completamente con tutte le conseguenze che potrebbero esserci. Io spero che un giorno possa esserci un ente che metta insieme tutti gli arbitri delle varie discipline sportive. Sarebbe un unicum, forse la strada migliore».

Fonte: Gennaro Arpaia (Il Mattino)

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