Il maestro De Simone: «La mia egloga barocca per un campione da mito»

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Roberto De Simone, che è musicologo e studioso raffinatissimo, Maradona ha voluto ricordarlo da par suo: con un’egloga barocca nella lingua di Giambattista Basile. Proprio così. Per il libro Diego e noi, che domani sarà in edicola allegato al «Mattino», il maestro ha scritto un omaggio in versi e rime come l’avrebbe concepito il geniale autore de Lo Cunto de li Cunti, un componimento prezioso in gloria di un personaggio che ha a che fare con il mito e perciò è degno di assurgere al Parnaso, tra i massimi virtuosi delle arti.
Perché ha scelto la forma dell’egloga, maestro? «Perché sono estraneo ai linguaggi realistici. Penso che il personaggio di Maradona non abbia bisogno della cronaca, nel suo caso bisogna attivare i linguaggi del mito. E quindi mi sono rifatto alla tradizione napoletana e al problema, continuamente ignorato, tra oralità e scrittura, tra pensiero e forma letteraria. Lo stesso problema che si è posto nel Seicento Basile quando ha deciso di scrivere un volume sulle fiabe popolari».
Come lo risolse? «Basile si adoperò per perfezionare un sistema di lingua già attivo nel Cinquecento. All’epoca non usavano il dialetto per le loro canzoni, ma un linguaggio elaborato che facesse capo a frasi idiomatiche e proverbiali. La fiaba popolare non è quella raccontata dalla nonna al bambino, ma è materia di un narratore professionista, un aedo, che sapeva utilizzare un linguaggio fantastico indirizzato a una collettività riunita: penso al linguaggio dei pastori nella transumanza, alla narrazione delle feste nei cortili».
Lei ha applicato questo canone a Maradona. «Sì, essendo Maradona non solo un calciatore, ma una persona che ha fatto del calcio un grande spettacolo di virtuosismo, fino a essere associato dai tifosi a San Gennaro e ad essere considerato un eroe taumaturgico del calcio».
Nell’egloga lo accosta ai sommi virtuosi della musica, tra Farinelli e Maria Callas. «Associandolo solo al calcio se ne riduce la portata mitica. Il virtuosismo di Maradona, invece, è traducibile in suono o in vocalità, e noi in vocalità siamo maestri. Abbiamo avuto i più grandi artisti della storia, da Farinelli a Farfariello, dalla Malibran a Enrico Caruso…».
Per tornare a Basile, il suo linguaggio risulta comprensibile alle varie fasce sociali. È una lingua viva. Lo ha scelto per questo?  «È quello che volevo fare. Non un’operazione di antiquariato indirizzata a pochi intellettuali. Sono due gli elementi che fanno parte della vera cultura: la poesia e la musica, perché non possono essere travisate. Vivono nella loro realtà e perciò sono destinate alla perennità».
Ha mai visto giocare Maradona? «Certo, anche se non andavo allo stadio lo seguivo, infatti le frasi dell’elogio barocco che c’è nell’egloga non le ho inventate, sono vere, ascoltate tra i tifosi. Quando parlavo con i contadini, ai tempi delle ricerche di antropologia culturale, trascrivevo tutte le frasi idiomatiche possibili. Ho proceduto allo stesso modo con il linguaggio dello stadio: lo ritenevo interessante e specialmente adatto al mito».
Anni fa mise in scena al San Carlo uno spettacolo, «El Diego, concerto numero dieci per Maradona e orchestra». Come lo strutturò? «In quell’occasione ho creduto necessario scindere un personaggio complesso in due aspetti emblematici: da un lato il virtuoso del pallone e dall’altro il suo rapporto con la gente». 
Come va recitata l’egloga, maestro? «Guardi, noi non sappiamo come veniva recitata la tragedia classica, o come il verso di Omero, attivato da un aedo, si rivolgesse ai partecipanti in ascolto attorno a una mensa… Quanto all’egloga di Maradona, direi che potremmo recitarla dopo un banchetto a base di ragù».

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Intervista a cura di Titta Fiore (Il Mattino)

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