Andrea Carnevale: “Maradona? Chi siamo noi per giudicare le sue debolezze”

L'ex attaccante del Napoli parla del "Pibe de Oro"

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Mentre Diego s’avvia verso l’Olimpo degli dei, la prima MaGiCa di quel tempo resta a sgorgare tra i singhiozzi d’un uomo solo con la propria memoria. C’è stata un’epoca, meravigliosa, in cui Napoli è rimasta incantata nel suo cielo terso, prigioniera d’una bellezza estatica ch’è servita per scrivere la propria Storia da raccontare ancora: e in un pianto che trascina con sè le parole ma mica i ricordi, Andrea Carnevale va a scovare i detriti d’una felicità stagnante per l’eternità. Fu Ma.Gi.Ca. per davvero l’«estate» dell’87, se ne avverte ancora in giro l’effetto benefico, e c’è un sole che non tradisce e non tramonta e s’allunga ben oltre un quadriennio che gli è appartenuto e rimane lì, scolpito nelle pietre che resistono al fiume di lacrime e al dolore che avanza.  

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E pensare che Andrea Carnevale aveva detto (quasi) di no al Napoli. «Pensi che sciocchezza. L’Udinese mi voleva cedere, c’era la possibilità di andare alla Roma, e io sono di Monte San Biagio, provincia di Latina. Capirà l’effetto che faceva in me quella proposta. Ma arrivò Pierpaolo Marino e spiazzò tutti, trovò l’accordo con Mazza, il predecessore di Giampaolo Pozzo, che intanto si stava insediando. E io cominciai a tergiversare, spiegavo, dicevo di aspettare. Sa come sono i ragazzi».

Venne Mazza…. «E mi disse: ma sai Andrea chi gioca a Napoli? Lo guardai stranito, penso di avergli persino detto ma che me ne frega! Stetti una notte a riflettere sulle parole del mio ex presidente, Marino non mollava, poi accettai. Stavo per fare la più grossa pazzia della mia vita».

Diventaste due amabili canaglie, se ce lo consente. O, se permette, due bagordi. «Può dirlo. Ma avevamo ventisei e ventisette anni e la vita ci ha permesso di divertirci. Ce lo siamo consentiti e mi posso persino vantare di essergli stato amico».

Diego si è lasciato andare. «E questa è un’altra storia, nella quale non ho il dovere di entrare, perché appartiene al suo privato, anche se di lui tutto è stato terribilmente pubblico. Leggo giudizi sferzanti e un moralismo che non è consentito a nessuno, perché vorrei andare a scrutare nelle vite di chi adesso sale su un pulpito a dare lezioni cosa si nasconde nel proprio passato. Sono schifezze, bassezze, che non sono consentite, perché c’è gente che di Diego non sa niente».

Vi siete divisi il sonno, come s’usava dire. «E chi gli è stato al fianco, come nei sette anni di Napoli, può raccontare la sua statura. Un gigante nella sua umanità. Diego andava a fare beneficenza e non l’ha mai detto. A noi compagni di squadra trasmetteva un senso della sua amicizia: una volta, non so quale compleanno fosse, fu capace di lasciarci senza parole, presentandosi lui, il festeggiato, con un regalo per ognuno di noi. Comprò degli anelli, delle vere e proprie fedi d’oro, e ne diede tre a testa, intrecciate come se fossero cerchi olimpici. Saremo amici per sempre, ci disse».

Gli scudetti e i trofei rappresentano un vissuto. «Ma il patrimonio affettivo è persino più grande. Ci siamo sentiti in queste ore tra calciatori di quel Napoli, ho parlato con tanti, con Giordano ad esempio che è stato un fuoriclasse – ripeto: un fuoriclasse – e che con me diceva: ci ha arricchiti. Pure economicamente, perché ci ha fatto guadagnare. Eravamo una squadra vera, piena di talento, ma senza Maradona non lo so se saremmo riusciti a vincere, ho il sospetto di no. E quella è stata un’epoca felice per chiunque, perché dove c’era questo Mostro Sacro, c’era lavoro: vale per la stampa, per le aziende, per i club, per chi ci incontrava. Non ha mai preteso, si è sempre messo a disposizione».

E per una amichevole ad Acerra sfidò Ferlaino. «C’era un bambino bisognoso di cure, servivano soldi, Pietro Puzone allestì questa gara, che però capitava in un periodo complicato. Maradona non volle sentire ragioni, al lunedì andammo a questa partita, si giocava in una palude, c’era una recinzione che, volendo, sarebbe volata via con un soffio della folla. Ma non si mosse nessuno, penso solo qualche ragazzino: come un Cristo, placava le masse. Il rispetto nei suoi confronti era sterminato. La sa la storia della Ferrari?».

Ce ne sono, ma ci fidiamo delle sue. «Quando partiva da via Scipione Capece, partivano dietro di lui centinaia – centinaia – di motorini. Lo aspettavano, sapevano che sarebbe passato di lì prima o poi, e lui non è mai scappato via. Quando poteva, si fermava per gli autografi o una foto; altrimenti, si lasciava scortare, sapendo che li avrebbe resi felici».

Dentro il pibe si nascondeva un demone. «La sua fragilità è nota ma è appartenuta esclusivamente a lui e gli è costata un prezzo amarissimo, che ha pagato da solo ed in prima persona. Chi siamo noi, mortali peccatori, per accusare questo Dio del calcio che ha avuto debolezze?».

Il giorno più bello della sua vita, Andrea, rimane il 10 maggio del 1987, quando la prima Ma.Gi.Ca. confezionò il gol-scudetto. «Da Diego a me e da me a Giordano, che di tacco mi spalanca l’area e io faccio 1-0 con la Fiorentina, che poi pareggerà. Mi venne incontro, mi baciò la fronte, mi urlava qualcosa che non capimmo mai».

Stiamo ancora a chiederci chi sia stato il più forte?  «Ancora, vero. La stella più bella di sempre resta lui, irraggiungibile e inavvicinabile. Di una generosità accecante».

E di slanci che la stupirono. «C’era Nando, un mio amico del mio paese, che un giorno si trovò, da solo e a sorpresa, sull’aereo privato di Diego. Io ero febbricitante, non potevo muovermi da casa. Diego venne a trovarmi, mi annunciò che sta per partire, guardo Nando e gli disse: dài, andiamo, Andrea è mio fratello e quindi tu appartieni alla famiglia, vieni, ci vediamo il Carnevale di Venezia. E partirono insieme».

E ce ne fu uno a Rio, anche… «Dove andai io. Non lo vedevo da dieci anni, sapevo che era una delle star. Volai in Brasile, andai a Copacabana, un ragazzo che conosceva mi guidò: conosco gli alberghi dove stanno i personaggi. Lo pescammo nel primo cinque stelle nel quale provammo: era a bordo piscina, da lontano non ebbe subito percezione che fossi io. Mi guardava, stupito, poi corse, mi abbracciò, mi prese in giro e mi buttò in piscina, vestito ovviamente. Ma non finì lì, perché non c’erano più posti per gli ospiti: c’era Pelé, Zico, mi pare di ricordare Cristopher Lambert, e non so chi e quanta gente, ma potrà immaginare. Ma lui, fermo, interpellò l’organizzazione: o arrivano due biglietti per Andrea o io me ne torno a casa. In un’ora, problema risolto».

La parola droga l’abbiamo lasciata nelle allusioni… «Mi ripeto: quelli sono stati c… suoi. Io so cosa ci ha concesso, la sua umiltà ad esempio, è un’educazione quella sì da indicare come punto di riferimento. E un coraggio da leone: combatteva i poteri forti, pure da solo. Un uomo con la U maiuscola».

L’Italia gli riapparve nel novembre del ‘98.
«Non sono mai mancato, non potevo. Si faceva precedere da una telefonata, a me come agli altri, e sfotteva: chiedi il permesso a tua moglie e rideva. La prima volta eravamo al St Regis mi sembra: Diego seppe che c’era il derby, un amico giornalista interpellò la Lazio che gli destinò un palco o due. E quando Maradona arrivò allo stadio, in ritardo, forse alla fine del primo tempo o poco prima, tacquero le voci e si udì un brusio, come un passaparola di stupore, prima degli applausi. Lo hanno amato tutti. Gli vorrò bene finché vivrò».

A. Giordano (CdS)

 

 

 

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