Nino D’Angelo ricorda Diego: «Con lo scugnizzo del barrio arrivò il sogno del riscatto»

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Nino D’Angelo ha pianto «come il giorno in cui è morto Pino Daniele, mi sembrava di aver perso di nuovo mia madre».

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Il tifoso della curva B ha saputo della scomparsa di Diego Armando Maradona dal figlio Vincenzo, giornalista sportivo: «Mi sono chiuso nel bagno, so quanti napoletani come me si sono sentiti orfani: se n’è andato via l’uomo che ci ha tolto gli schiaffi dalla faccia, il ragazzino venuto dalla miseria per regalare a noi scamazzati la grande bellezza e le uniche vittorie della nostra vita».
Ricordi quando hai conosciuto El Pibe de Oro?
«Era appena arrivato a Napoli e qualcuno aveva affisso degli strani manifesti: Napule tre cose tiene belle: Maradona, D’Angelo e e sfugliatelle. Jorge Horacio Cysterpiller, il suo mitico primo agente, mi convocò al San Paolo, pensava che io fossi nu cantantiello qualunque che voleva farsi pubblicità alle spalle del campione. Non era così, con Diego ci capimmo all’istante: ci univano le radici nella povertà, l’ignoranza mai placata, la sete di capire e vedere, il bisogno di non tradire mai la nostra gente».
E l’ultima volta che l’hai visto?
«L’ho sentito: era il 30 ottobre di due anni fa, su suggerimento del figlio, Diego Armando junior, registrai una canzone napoletana al pianoforte per lui e gliela mandai nel giorno del suo compleanno. Mi telefonò per ringraziarmi, felice».
Che canzone?
«Lui amava Sergio Bruni, ma, soprattutto, amava Carmela. E io, che a Bruni sono devoto, che altro potevo dedicargli?».
El D10s come «Carmela», come Napoli: rosa, petra e stella?
«Maradona è un cognome che è diventato sostantivo: vuol dire il più grande in ogni lingua del mondo, senza bisogno di traduzione. Certo, assomiglia a Napoli, a me, a Pino Daniele, lo ripeto, anzi, per dirla con il Nero a Metà, Napule è Diego Armando Maradona. C’è persino un centro sociale che porta il suo nome, lui è stato amatissimo da ricchi e poveri, borghesi e alternativi, sinistra e destra. Ci ha uniti, non divisi, solo quando è caduto in disgrazia qualcuno si è distinto voltandogli le spalle. Come la donna/città della canzone su versi del poeta Salvatore Paloma Diego profumava di vita come una rosa, era duro come una pietra perché diceva sempre quello che pensava e brillava più di qualsiasi stella mai apparsa».
Avete anche girato un film insieme, «Tifosi», del 1999.
«Era una commedia di Neri Parenti, mi ha regalato dieci giorni di set e doposet con lui. Abbiamo cementato un’amicizia. Mi inchino al ragazzo del barrio diventato re del riscatto della nostra città».
Il ricordo più bello?
«I gol. Quando quella prima volta lo vidi parlare mentre palleggiava come un acrobata. La sensazione che ci regalava di non essere più gli ultimi, anche nel calcio, persino nel pallone. Le sue reti non sono state una rivoluzione, ma di sicuro la cosa più simile alla giustizia sociale che io abbia mai visto. Il tatuaggio di Che Guevara. Il ricordo più bello, però, restano le serate con lui e sua moglie, allora Claudia Villafane, a casa di Peppe Bruscolotti. Nella stanza della musica quasi si perdeva, amava ballare, era una piccola discoteca tutta per lui».
Ciao, Diego, ciao. Federico Vacalebre (Il Mattino)

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