Meret: “La famiglia e la mia fidanzata sono il mio rifugio. La Roma? Pronti a ripartire”

Il portiere del Napoli analizza anche la notte di Roma e sui rigori

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Le voci corrono: e sarà stato quando Alex Meret era ancora nella culla, che si sussurrava d’essere al cospetto di un fenomeno. «Vox populi, vox Dei», vale pure nel calcio, poi quell’eco s’è diffusa, è rimasta lì a galleggiar nell’area (e anche nell’aria) e ora che il «bambino-prodigio» è cresciuto, attende solo di celebrarlo. Meret è un uomo fuori dal tempo, ha stregato Buffon («vederlo lavorare è un’emozione»), ha conquistato De Laurentiis (venticinque milioni per averlo, appena ventunenne), appartiene a quella categoria di portieri che ancora preferiscono parare con le mani, com’è giusto che sia, e indicare con le dita la strada che conduce tra le stelle.

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Cominciamo dall’inizio, Meret, così il lettore capisce: la sua Napoli è….? «Secondo giorno di allenamento, stiamo giocando una di quelle partitine che aiutano a smaltire la fatica e servono per prendere confidenza con le idee tattiche. C’è un pallone che arriva in verticale, per il taglio dell’esterno, io mi tuffo e… mi ritrovo in uno studio medico, per gli esami strumentali. Cinque mesi persi».

E arriviamo ad oggi. «Si gioca con la Roma, spero tocchi a me, ovviamente, e mi spiace che Ospina si sia fatto male a Bergamo. Mi prendo i miei spazi, quelli che mi concede Gattuso che, da allenatore, nelle decisioni è sovrano. Sono io che dovrò convincerlo».

Venticinque milioni – e quel talento, il suo – spesso in panchina hanno rappresentato argomento di discussione mediatica. «Ma io devo provare sul campo a conquistare Gattuso. Siamo in tre e tutti molto forti, c’è una concorrenza leale e però comunque viva. Le prestazioni, in allenamento o in partita, indicano il più in forma».

Andiamo a domani, cioè al futuro: s’immagina una stagione da «precario»? «Mi rimetto alle decisioni della società. Io, ovviamente, spero di guadagnarmi lo spazio che voglio, ma dipenderà da me. Di una cosa sono sicuro: darò sempre il massimo e, se possibile, anche di più».

Perché restare a Napoli le piace… «E vorrei durare anche a lungo. C’è un ambiente ideale, in una città fantastica. Non potevo chiedere di meglio: clima, sentimento, natura, arte e pure la cucina, se permettete. E un club che ormai si è radicato in Europa, da undici anni. Che è sempre tra le protagoniste, anche quando, come stavolta, non ha cominciato benissimo».

La sua notte magica è all’Olimpico di Roma, il 17 giugno. «La Coppa Italia è un premio che ci siamo meritati, lottando dopo mesi di sofferenza. Sembrava che avessimo buttato via questi dodici mesi e invece abbiamo raddrizzato la stagione, regalando a noi, alla società e alla gente un trofeo che ha un valore. E conquistarlo contro la Juve, per i tifosi, ha un sapore poi speciale».

Andiamo «rigorosamente» per ordine a quei momenti, ai rigori: ha subito Dybala di fronte. «Quando ho visto che si avvicinava, ho ripensato a tutto quello che avevo studiato di lui, alla sua ultima esecuzione, a quelle precedenti, al modo di incrociare. Non ho avuto dubbi, ho battezzato quell’angolo e sono andato giù sicuro».

Ma quando parte Danilo, lei rimane perplesso, osserva la panchina, sembra disorientato. «Come in un vuoto di memoria, non ricordavo niente. Perché niente avevamo trovato. Cercavo con lo sguardo Nista, il preparatore, con il quale prepariamo le partite. Una finale di Coppa Italia può spedirti ai rigori e allora c’era l’elenco dei possibili tiratori, di chi aveva questa tendenza. Ma su Danilo no, non avevamo dettagli. E io inseguivo il linguaggio in codice di Nista, che ovviamente non poteva arrivare».

E’ stata una gioia soffocata dalle condizioni. «Lo stadio vuoto, il dramma del Paese, la sensazione di dolore che si avvertiva, il terrore creato dal Covid in precedenza: uno scenario che ha alterato gli umori ed ha sconvolto. Però il calcio ha dato un segnale e quella sera, alla fine, ho vissuto un’emozione che rimane».

Da bambino, ha avuto un solo sogno. «Provare a diventare Buffon. Era il mio idolo, mi interessava crescere per provare a diventare forte come lui».

Non ha scelto un modello qualunque. «Le classifiche non si possono fare, soprattutto con calciatori di epoche diverse. Però tra i più grandi di tutti i tempi lui c’è, poi ognuno sceglie il preferito. E io voto Buffon».

Decida i più bravi in questo momento. «Alisson e Oblak, per tanti vari motivi, fisici e caratteriali, ma anche tecnici».

In Italia, è una gara a quattro, rileggendo le più recenti convocazioni di Mancini: Donnarumma, Sirigu, Meret, Gollini. «Però i posti saranno tre e questo è un Paese di portieri, con una tradizione che viene rispettata. L’Europeo è lontano ma è chiaro che quello diventa un obiettivo. Ci andrà chi giocherà e dimostrerà di meritarlo e io spero di esserci. Gigio ha già quasi duecento partite alle spalle, niente male. Però sarà una bella sfida, trasparente ed entusiasmante, per tentare di scalare le gerarchie.».

Prima, però, ci sarà anche tanto altro. «Barcellona, il Camp Nou, il fascino di un ottavo di finale nel quale i favoriti sono loro ma senza che il Napoli si senta battuto».

Perché crederci? «Perché all’andata li abbiamo messi in difficoltà; perché li abbiamo controllati bene; perché siamo in condizione e siamo anche convinti di crescere ulteriormente. Perché vogliamo andare ai quarti di finale, noi come loro, e faremo l’impossibile per riuscirci».

Esprima un desiderio? «Vorrei vincere qualcos’altro di importante, dopo la Coppa Italia: scudetto e Champions sono le ambizioni più grosse, chiaramente. Ma vorrei partecipare ad un Mondiale, ad un Europeo».

Ad una final-eight a Lisbona. «Sarebbe una esperienza fantastica, vivere questa prima volta. Noi ci proviamo».

Dicevano di lei, quando era ancora un fanciullo: è un predestinato. «Questa non l’ho sentita ma la prendo per buona. Però ho avuto anche la fortuna di trovare in Semplici un allenatore che ha creduto in me: mi volle alla Spal, avevo diciannove anni, in una squadra che avrebbe dovuto vincere il campionato di B. Ci riuscimmo e mi tenne anche in serie A. Sono testimonianze che restano».

Sprizza talento da ogni guanto. «Ci ho lavorato e tanto mi resta da imparare ancora. All’Udinese ho avuto ottimi insegnanti, che mi hanno tirato su trasmettendomi le lezioni giuste».

Il resto l’hanno fatto mamma e papà.  «La famiglia, la mia fidanzata, sono il mio rifugio, il riferimento. I genitori mi hanno trasmesso valori forti, come l’umiltà e il sacrificio. E non dimentico i sacrifici che hanno fatto, portandomi ovunque, rimanendo sempre al mio fianco, seguendomi nelle trasferte da ragazzino. Le mie soddisfazioni sono per loro».

C’è la Roma e voi siete reduci dalla sconfitta di Bergamo. «Non abbiamo mollato, è stato una gara particolare, perduta per episodi. Ma siamo pronti a ripartire, per arrivare bene a Barcellona. Si giocherà ogni tre giorni, ci sarà modo per ognuno di dimostrare il proprio valore».
Un mese non passa mai. «O vola. Dipende da come lo affronti. E a noi Gattuso ha toccato le corde giuste, dopo quell’inizio difficile, poi complicato. Penseremo al Barça quando sarà il momento. E quella sera, sicuri, ce la giocheremo alla pari. E’ ovvio che sia dura contro Messi, ma si può fare».

De Laurentiis, che stravede per lei, le chiede di imparare a palleggiare da Reina e da Ospina. «E mi ha consigliato due portieri dai quali c’è da apprendere. Il lavoro non mi manca per completarmi».

La sua parata più bella del biennio napoletano…? «Lascio scegliere agli altri tra il rigore di Dybala, il volo in basso di Salisburgo, la triplice risposta all’attacco del Verona, all’andata. Ma non mi chieda la più brutta…».

Antonio Giordano CdS

 

 

 

 

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