Castellacci al CdS: “La quarantena va ridotta da 14 a 7 giorni. Il calcio riparte? Merito della Figc”

Il capo dei medici sportivi, intervistato dal CdS

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Le due settimane di quarantena in caso di positività di un componente del gruppo squadra «sono un problema serio» secondo Enrico Castellacci, ex responsabile dello staff sanitario della Nazionale, ora presidente della Libera Associazione Medici Italiani del Calcio (Lamica). «Un caso non può fermare l’intero sistema» dice il prof, con toni preoccupati. Chiaramente c’è una spada di Damocle sopra il pallone. Secondo alcuni è come una condanna a morte in attesa di esecuzione: servirà più fortuna che bravura affinché nessun tesserato (un calciatore, ma anche un fisioterapista, un magazziniere o un tecnico) si ammali da qui alla fine di agosto. 

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Professor Castellacci, intanto si ricomincia… «Diciamolo: è già una grande vittoria. Buona parte del merito va alla Figc che non si è fermata ai primi “no” e ai muri che la politica ha alzato in questi mesi. Sta ripartendo il mondo, i locali si riempiono, i negozi riaprono, nelle strade scorre vita. Mi sembra giusto che anche un’industria importante come quella del calcio abbia le stesse possibilità».

Che ne pensa del nuovo protocollo per le partite? «I club che militano nel massimo campionato potranno applicarlo tranquillamente, ma possiedono potenzialità economiche, organizzative, logistiche e umane non paragonabili. Per le altre leghe la vedo più difficile».

Si spieghi. «Come associazione abbiamo portato in Federcalcio due documenti per dare voce ai medici di Serie B e Serie C: i primi hanno delle perplessità, i secondi nel 90% dei casi affermano che difficilmente potranno far rispettare il protocollo. Come trovano i test? Come organizzano i ritiri blindati qualora ce ne fosse bisogno? E poi, scusate se è poco, in Serie C di solito un medico lavora part time. Non riuscirebbe nemmeno a fare la quarantena con il resto della squadra. Non è un caso che la Lega Pro si volesse fermare».

E come la mettiamo con i quattordici giorni di quarantena obbligatoria per l’intera squadra? «Se volontà federale e volontà politica coincidono e se tutti hanno scelto di andare avanti, come sembra, perché non pensare a una riduzione della quarantena a sette giorni? Soltanto così il campionato potrebbe andare avanti. Le condizioni sanitarie del Paese continuano a migliorare, bisogna accorciare i tempi del ritiro fiduciario dove comunque la squadra, escluso il positivo, continuerebbe ad allenarsi ma senza poter giocare. Quattordici giorni sono troppi e la normativa del ministero della salute è del 21 febbraio. Nel frattempo è mutato lo scenario».

I piani B e C non la convincono? «Questo lo decide la Federcalcio. Io la vedo da un punto di vista medico: la diminuzione della curva epidemiologica ci porta a sperare che non ci saranno nuovi contagi. Potrebbe però accadere il contrario, specialmente quando ripartirà il campionato e ogni turno si muoveranno 3.000 persone in 10 diverse città tra calciatori e addetti ai lavori. Cominciare è un successo, fermarsi di nuovo sarebbe una tragedia».

Sette giorni rappresentano un tempo corretto per isolare la squadra, fare i test a tappeto e ripartire? «Di sicurezze non ne abbiamo, ma lo stesso vale per i 14 giorni. Non è che stando chiusi in ritiro per due settimane avremo la certezza del rischio zero. Mettiamocelo in testa: con il virus dobbiamo convivere. E questo vale per la nostra esistenza quotidiana, non solo per il calcio. Allo stato attuale mi sembra evidente che basta un solo positivo per far crollare il castello a cui si sta lavorando da mesi».

Com’è la situazione dei test nelle squadre? «I club stanno rispettando i cicli dei tamponi e mi sembra che stiano attuando le migliori procedure. Speriamo sempre che prima o poi si possa utilizzare un test sierologico centralizzato, uguale per tutte le società. Ci vorrebbe uniformità nell’analisi, altrimenti rischiamo di avere risultati diversi e non attendibili. Poi siamo in attesa dei test salivari che ci consentirebbero di fare una diagnosi più rapida e sicura».

Riaprire gli stadi a capienza ridotta, come avviene per cinema e teatri, sarà possibile? «In questo momento la vedo dura. Se c’è l’obbligo di mettere in quarantena 300 persone per un solo caso di Covid-19, figuriamoci cosa potrebbe succedere se entrasse il pubblico negli impianti… Facciamo un passo alla volta».

Quali sono i vostri rapporti con la Figc? «Personalmente non ho mai avuto uno screzio con il presidente Gravina, che stimo davvero tanto e per il quale nutro un affetto sincero. Come Lamica, però, non siamo stati invitati nella commissione federale e non riesco a capire il motivo. I medici che la compongono sono i rappresentanti delle leghe, nominati dai presidenti di lega. Non rappresentano i medici del calcio, rappresentano le componenti».

Lei avrebbe agito diversamente? «Non voglio fare polemiche, ma in queste settimane spesso mi sono chiesto il senso di tutti quei tavoli di lavoro. Si è dato adito a una burocrazia stupida. Bastavano tre rappresentanti del Cts, la Federazione Medico-Sportiva per il Coni, la commissione Figc e noi medici del calcio, tutti riuniti intorno a un tavolo. Insieme avremmo tirato fuori un bel protocollo, senza polemiche».

Siete ancora preoccupati per le troppe responsabilità sulle spalle dei medici? «Abbiamo combattuto una battaglia e mi sembra che alcune indicazioni siano state recepite. In un primo momento ci siamo subito attivati, inviando una comunicazione scritta dai nostri legali al ministro e alla federazione. Volevamo ribadire che giuridicamente si stava seguendo una pista sbagliata. I medici sono sempre sottoposti al codice civile e penale, sanno benissimo qual è la loro responsabilità e l’hanno sempre assunta. Ma si stava sottovalutando un concetto banale, quanto necessario: la condivisione del rischio»

Un po’ come nella vita reale?
«Esatto. Il dottore deve comunicare ai dipendenti le regole per lavorare in sicurezza. Non deve vigilare sulla loro osservanza. Quel compito non gli spetta e non può esserne responsabile. A ognuno di noi è chiesta una responsabilità individuale sulle azioni che compiamo».

Crede che la figura del medico sportivo sia trattata con troppa sufficienza? «Pensi che siamo l’unica figura professionale non istituzionalizzata nel mondo del calcio. Qualora il medico abbia un contratto, non è depositato in lega. Le tutele sono pari allo zero, eppure la nostra associazione esiste da cinquant’anni». 

A cura di Giorgio Marota (CdS)

 

 

 

 

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