I costi del lavoro della Serie A sono in continua crescita

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L’emergenza Coronavirus ha costretto la Lega a navigare a vista, portando sul tavolo di crisi più di un’ipotesi di austerity. Il contagio epidemico sta rallentando, ma ancora non si ferma come previsto inizialmente dagli scienziati. Da qui l’accordo sul taglio degli stipendi dei calciatori, deciso ieri in assemblea. In sintesi, 1/6 (oltre il 15%) in caso di chiusura regolare della stagione e 30% se lo “stop” venisse confermato fino al termine.

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ERRORI

Il calcio della massima serie paga, in questa fase, gli errori epocali di una classe dirigente, che ha sempre preferito spendere allegramente piuttosto che reinvestire o risparmiare in vista di tempi difficili. E’ sufficiente prendere in esame la “ripartizione dei costi e ricavi” della Serie A, nel periodo compreso tra il 2013-14 e il 2017-18 (illustrato all’interno del “Report Calcio” di Federcalcio-Arel), per comprendere come il costo del lavoro, ad esempio, non sia mai sceso sotto la soglia del 49% (come nel ’13-’14), raggiungendo il picco del 53% nel ’15-’16, e attestandosi su una media del 50% nell’ultima stagione (’17-’18) oggetto del monitoraggio. Più della metà dei ricavi vengono assorbiti da questo indicatore, senza poi considerare gli “ammortamenti e le svalutazioni” (compresi tra il 20% e il 24%), si raggiunge così un livello di pressione non inferiore al 74% (dato stagione 2017-18). Fonte: CdS

 

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