Rubrica Amarcord – di Stefano Iaconis: “Giorno infausto”

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Giorno nefasto. Si chiama così perché il 18 luglio del 390 a. c l’esercito romano, nei pressi del fiume Allia, subì una disastrosa sconfitta militare. Terribile. Ad opera dei Galli Senoni.E da quel momento quel giorno venne bandito dal calendario romano. Nella storia del calcio Napoli esiste un medesimo giorno infausto. Il 26 aprile del 1981. Il giorno nel quale il già retrocesso Perugia, del futuro napoletano Salvatore Bagni, passando al San Paolo, spense in un pomeriggio sanguinoso per il cuore di chi ricorda, ogni speranza di scudetto colorato di azzurro. La domenica di quel giorno di aprile è scolpita a caratteri di fuoco nella mente dei tifosi più avanti negli anni. Era stata una stagione straordinaria. Partito senza alcun favore del pronostico, il Napoli si era trovato, grazie ad una serie di risultati, ottenuti soprattutto a Fuorigrotta, in testa alla classifica. Facendo impazzire un popolo segnato in maniera disastrosa dal giorno dell’Apocalisse del terremoto. Era sembrato quasi un segno del destino. Un risarcimento alla sofferenza. Erano fioccati gli uno a zero ed i due ad uno. Difesi sulle barricate di una difesa impenetrabile. La squadra, graniticamente raccolta davanti al suo vate maestoso, l’ indimenticabile Rudy Krol, si era scoperta capace di un carattere di acciaio. La guidava Rino Marchesi. Signore di tempi che furono. Dalla sagacia tattica senza orpelli, e l’ ironia furba, condita dal sorriso, cara ai napoletani. Incredibile, ma vero, a cinque giornate dalla fine del torneo, gli azzurri si trovavano in testa alla classifica della seria A. Appaiati alla Juventus. 35 punti il Napoli, 35 i bianconeri. Con la formazione di Marchesi che doveva affrontare nell’ordine: il Perugia, la Fiorentina ed il Como, prima dello scontro diretto con la Juve (al San Paolo), per chiudere con l’ Udinese. La Juventus avrebbe avuto Roma e Napoli in sequenza. Da fregarsi le mani. E così, quel pomeriggio, il Perugia appariva la vittima da sacrificare sull’ara di un trionfo del quale si avvertiva il profumo. Aveva piovuto, e forte. Il campo era pesante. E l’aria satura di elettricità, non solo per il tempo inclemente, ma anche perche’ l’adrenalina dei 70 mila scorreva a fiotti. Un momento prima però c’era il sole. E parve un bellissimo inciso. Un sole tiepido che durò il breve tempo dell’ingresso in campo e del calcio di avvio. Scomparve immediatamente. A presagio di un giorno memorabilmente triste. Non appena Di Gennaro dalla fascia sinistra, erano trascorsi 50 secondi, mise un pallone in mezzo rasoterra. Innocuo. Inoffensivo. Nessuno di quelli in maglia rossa a raccoglierlo. Forse fu l’ansia. Forse la fretta, L’inesperienza. O forse fu il canto che veniva dagli spalti. Ossessivo. Un mantra che narrava di gioia incontenibile. Prima ancora che questa si manifestasse. Ferrario, in spaccata, colpì la sfera con precisione terribile. La infilò all’ incrocio dei pali. Con Castellini in volo sorpreso. Sbigottimento. Silenzio irreale. Se qualcuno avesse alzato lo sguardo avrebbe capito. Dai nuvoloni gravidi che passeggiavano sullo stadio. Una flotta. Ma sembrò solo un caso. Perché c’erano a disposizione un ora, 29 minuti e 10 secondi di tempo. A Fuorigrotta. Contro il Perugia retrocesso. Per recuperare ed andare a contendere il titolo ai bianconeri. Fino alla fine. Nessuno avrebbe sospettato che da lì a poi, sarebbe incominciato un incubo surreale. Che ebbe un nome: Nello Malizia. Era il portiere degli umbri. Uno di quello della vecchia guardia di una generazione di estremi difensori italiani, la cui scuola era al tempo una delle migliori la mondo. Malizia, nomen omen, incominciò una personale battaglia contro tutto e tutti, aiutato dai pali della sua porta. Annientò il mito di Battara, il leggendario portiere della Sampdoria che si dicesse capace di qualunque prodigio quando calava a Fuorigrotta. Quel giorno Malizia prese tutto. Ma proprio tutto. Fermò Marangon con un balzo. Bruscolotti, che si era catapultato in area, due volte. Poi Damiani a botta certa, ed ancora la piccola ala destra, non si sa come, da tre metri, con i piedi. Poi, ipnotizzò Pellegrini, in tuffo. Quando non ci arrivò il portiere umbro, ci pensarono i legni. Come quando lo stesso Pellegrini, su un traversone, accompagnò la palla verso la rete con il petto. La sfera ebbe un effetto biliardo e si stampò incredibilmente, sulla base del palo. Per pochi millimetri. Ci si mise poi la fregola. Quello del tempo che trascorreva invano. Ed ancora Pellegrini tirò fuori a porta vuota. Dopo aver preso finanche la mira. Lo si vide battere i pugni sul prato intriso di acqua. Disperato. Dagli spalti, quel canto, iniziò a scemare. Divenne un singulto soffocato, strozzato. Si ribellava alla fiamma dello sgomento ora a tratti. Quando il Napoli, nella disperazione di un assalto senza più alcun senso logico e nesso, aggrappato ad un filo tenue, riversava palloni su palloni nell’area perugina. Tutti tra le braccia di Malizia. Quelli in rosso onorarono lo sport fino in fondo. Come avevano fatto a Torino, contro la Juventus, piegati negli ultimi 5 minuti qualche settimana prima, da un rigore ed un gol che scatenò mille polemiche. Poi finì. E fu come se sullo stadio fosse calato un drappo dal cielo a coprire anche i sospiri. Uscirono a testa china anche loro. Quelli del Perugia, Senza esultare. Non c era nulla da esultare. Era un dramma sportivo di proporzioni inenarrabili. Uscirono rispettando il dolore di uno stadio che alla fine esplose in uno scroscio di applausi. Quelli della speranza. Mancavano ancora 4 giornate. Ed uno scontro diretto da giocare. Lo vinse la Juve, in un San Paolo stipato. In un pomeriggio di sabato, che i bianconeri avrebbero dovuto giocare una finale di coppa campioni a Bruxelles. Al mercoledì. Contro il Liverpool. Fu l’ onda lunga, quella partita poi, di un dolore dentro una stagione dolorosa. Un altro giorno infausto. Di cui si cancelli la memoria.

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a cura di Stefano Iaconis

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