Appello accorato di Fabio Cannavaro: “Il virus fa paura…non uscite”

Il campione del Mondo e pallone d'oro ai microfoni del Corriere dello Sport

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Anche il mondo del calcio si è fermato per la pandemia Coronavirus, i primi a farlo sono stati i cinesi, sospendendo il campionato per due mesi. L’ex calciatore di Napoli, Juventus, Inter e Real Madrid, Fabio Cannavaro, oltre che Pallone d’Oro e campione del Mondo nel 2006 racconta la sua esperienza in questo periodo di emergenza al Corriere dello Sport.  «Quella della paura strisciante, una sensazione mai vissuta – come tutti – prima d’ora e che non si riesce a definire attraverso le parole, perché certe emozioni non sono rappresentabili. Appartengo ad una generazione fortunata, ho attraversato, ma ero bambino, i giorni del terremoto; e ci sono state epidemie, penso alla Sars, conosciute da lontano. Questo virus è di tutti, non fa distinzioni, si sta diffondendo ovunque: io sono qua, in Cina, con mio fratello Paolo, abbiamo le nostre famiglie, le mogli, i figli, i genitori, mia sorella a Napoli, e non basta il ponte telefonico quotidiano per rassicurarci. Non vorremmo essere travolti dal panico, ma il timore è enorme».

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Tutto è cominciato in Cina e lei ha conosciuto l’emergenza, l’intervento dello Stato. «C’è stato immediato ricorso alla tolleranza zero, che deve essere recepita anche da noi, senza superficialità, come stiamo facendo e come non riscontro in altri Paesi, che mi sembra abbiano reagito con discutibile leggerezza. Ma qui i controlli sono stati seri e rigorosi, c’erano controlli agli ingressi dei condomini, alle uscite delle autostrade, ho visto le ambulanze ai caselli e l’Esercito nelle strade deserte. Non hanno scherzato e ora si ricomincia lentamente ma gradualmente a vivere. Sono stati mesi duri, difficilissimi. Noi siamo appena rientrati a Guangzhou dal ritiro di Dubai e ci hanno sottoposto al tampone, prima di indurci ad un periodo di quarantena. Perché i pericoli restano, soprattutto per chi rientra da un periodo trascorso all’estero».

Riaffiora la vita, comunque. «Senza però sottovalutare un’organizzazione capillare: da due settimane, qui a Guangzhou, non ci sono casi. Sembra, per ciò che leggo, e ne parlo da cittadino e non certo da esperto, che il virus adesso sia tenuto sotto controllo. Ma nessuno ha abbassato la guardia e chi arriva viene controllato. Il problema più grosso, nella fase iniziale della diffusione della pandemia, lo ha rappresentato la fuga dalle zone rosse: so che in Italia c’è gente che si ammassa nei treni, da Nord a Sud, per tornare nei propri luoghi. Ed è questo l’errore più grosso che si possa fare, perché con questi esodi si allargano le aree di contagio e si creano nuovi casi che finiranno per trasmettere il coronavirus in altri territori. Il Governo italiano si è mosso con polso, adesso, e mi permetto, da qui, di applaudire Vincenzo De Luca, il presidente della Campania, per il suo decisionismo: la gente deve capire che bisogna starsene rinchiusi in casa, come viene stabilito da chi ne sa più di noi. Non è ammesso alcun atteggiamento di incoscienza».

Il calcio ha tentennato per un po’…. «Ma poi si è fermato. Era una scelta inevitabile, direi sacrosanta, e l’Italia ha finito per rappresentare il modello da seguire con la sua intransigenza. Qui l’unica partita che sta a cuore a chiunque si gioca con la vita di chi ha difese immunitarie più deboli e non è lontanamente ipotizzabile, come pure è accaduto sino a qualche giorno fa, di lasciar disputare avvenimenti a porte chiuse. Pure quelle sarebbero state, e spero non lo siano state, fonti di spargimento dell’infezione. Il collasso dal punto di vista sanitario va scongiurato, però con certi atteggiamenti si creano le basi per alimentarlo: le strutture non sono adeguate, e non lo erano neanche qui, dove però hanno seguito principi inderogabili. Ci sono stati momenti lunghi in cui per le vie delle città non c’era anima viva e non è un modo di dire, mi creda».

Né la priorità non può essere un pallone.
«Quando tutto sarà finito, speriamo presto, e questo periodo della nostra esistenza rappresenterà solo un ricordo da scacciare via, allora si penserà ai campionati, alle coppe, agli Europei. Ma adesso non ce ne frega niente, l’ha capito anche la gente, che ha preso coscienza di cosa stia accadendo. E se ne accorgeranno anche in Germania, in Inghilterra- dove qualcuno ha pensato bene di ironizzare su di noi e sulla nostra natura – o in Francia, che non è consentito scherzare ma bisogna intervenire: il virus non fa sconti, non ha frontiere, ci sono numeri che parlano chiaro e testimoniano la drammaticità di questa fase dell’umanità, chiamata ad un duro confronto con le proprie abitudini. Le dobbiamo modificare, bisogna farsene una ragione, almeno sino a quando non sarà stata vinta questa battaglia terribile. Possiamo dircelo: all’inizio pensavamo che fossimo in presenza di una influenza potente. Però quando si è avuta la consapevolezza che era ben altro, siamo intervenuti: in Cina l’hanno fatto con un rigore che sta risistemando la quotidianità della gente. Ora si ricomincia a vivere, c’è un po’ di movimento, io stesso posso ordinare qualcosa al ristorante qua sotto casa e poi ceno insieme a Paolo. Ma è così che bisogna orientarsi: con intransigenza».

Ed uscire da questo limbo che non offre, ma ora, un orizzonte. «Non abbiamo mai dovuto fronteggiare questo stato d’ansia, non noi dico. E siamo in apprensione per i nostri figli, per i nostri padri e le nostre mamme, che hanno qualche anno più di noi e dunque rientrano nella fasce più a rischio. Ma ce la faremo, se sapremo essere responsabili. Non siamo in guerra, quello è stato chiesto ai nostri nonni; e a noi, parafrasando uno di quegli slogan che via social tentano anche di sdrammatizzare e dai quali siamo inondati, viene chiesto semplicemente il sacrificio di starcene stesi sul divano. Leggiamo, informiamoci di cosa ci succede intorno, telefoniamo ai familiari che stanno lontani, ma evitiamo di andare in giro, di muoverci, perché il virus è pericoloso. Il calcio e anche il lavoro in genere non possono avere la precedenza, anche se capisco le difficoltà degli imprenditori, di ci ha responsabilità verso decine o centinaia di persone. Verrà poi il momento degli interventi istituzionali, ai quali penseranno i Governi. Ma qui non c’è business che tenga».

Sinora anche, però, un senso di partecipazione e di generosità e si muovono i calciatori, i club.
«Noto il fermento e mi fa piacere, anche se non ho mai avuto dubbi sulla intraprendenza, in questi casi, degli italiani. Io ho parlato poco fa con Del Piero, stiamo provando a studiare qualche iniziativa che possa essere di sostegno per il nostro Paese: qualsiasi idea utile che serva, magari per gli Ospedali».  

La Redazione

 

 

 

 

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