Milik è il calcio nelle sue varie espressioni, ora tenero e altre volte possente
Lasciate che il cronometro scorra con i suoi ritmi e al novantottesimo giro di lancette, puntuale, mentre osserverete le stelle, il calcio diventerà prosa o poesia, dipenderà dalle esigenze, dalla genialità, persino dalla postura del corpo e dalla natura di quell’istante: e potrà servire una volée in semi-girata, una punizione accarezzata con dolcezza, una zampata elefantiaca nell’area intasata più delle strade durante lo shopping natalizio oppure no, la ciclopica, devastante, acrobatica potenza d’un corpo che sprigiona rabbia e adrenalina, orgoglio e fierezza, ciò che per due anni è rimasto seppellito nel buio di un’anima in pena. E si scrive Milik e si ripensa a quel calvario tra un crociato e l’altro, una strettoia soffocante prese a spallate, per liberarsi degli impacci, degli impicci e d’una diffidenza avvertita a pelle e pure alle orecchie, mentre intorno, tra urla strazianti e invocazioni social, c’era un Matador a far germogliare rimpianti oltre il lecito. Milik è il calcio nelle sue varie espressioni, ora tenero e tecnicamente garbato ma poi possente, con bicipiti, tricipiti e quadricipiti sfruttati per liberarsi da quell’angosciante passato e dai pregiudizi: dieci reti e senza calci di rigore, come CR7 (ma nessun folle paragone) però giocando quasi la metà (979 minuti contro i 1635) e soffrendo nella penombra, con quel vociare fastidioso intorno, figlio del sospetto che la zavorra di due interventi chirurgici, a undici mesi di distanza, diventasse insopportabile. Fonte: CdS