Gigi Caffarelli: “Pochi al mondo come il Napoli. Io e Callejon simili. Con Grava in giro in cerca di talenti”

Quando la fantasia cominciò a volare, sull’ala di destra, a Gigi Caffarelli vennero in mente una serie di cose: l’infanzia troppo breve in quel rione, la Sanità, quartiere Stella; l’adolescenza sfarzosa, nelle giovanili, in cui gli successe di sognare. «Pensi, mi sarei accontentato di indossare la maglia del Napoli, di esserne titolare». Si ritrovò nella favola che sembrava irrealizzabile: che ancora vive.

Il suo prossimo scudetto, Caffarelli, sta per arrivare… «Nel ‘78 sono entrato nel settore giovanile del Napoli: nel 2018 sarà il mio quarantennale, il più vecchio dopo Tommaso Starace, il magazziniere più famoso d’Italia, che è stato assunto nel 1976. Mi sento un sopravvissuto per avere attraversato ogni stagione. E sono un uomo felice». 

Ma quel giorno? «Per me fu una gioia speciale, perché napoletano del centro, del cuore di una città che non tradisce mai. E ce ne erano tanti di ragazzi come me, cresciuti nel settore giovanile d’una formazione che nel ‘78 avevano vinto il titolo Primavera di campione d’Italia. Io ero un infiltrato, perché ero sotto d’età, e dunque l’ho vissuto di striscio. Ma il trionfo dell’87 fu il premio per tanti giovani meridionali. Non una rivincita, ma una conquista».

In quel Napoli ebbe un ruolo. «Avevo fatto meglio due stagioni prima, quando tornai dal prestito della Cavese, dove eravamo andati vicinissimi alla promozione in serie A. Mi trovai nel Napoli, me la giocai bene. Poi cominciarono ad arrivare un po’ di fenomeni e dunque dovetti industriarmi: però spazio me ne fu concesso e anche gloria».

Senza scendere in paragoni, il Callejon di quel tempo«Qualche analogia c’è: ero uomo di raccordo, sfangavo sulla corsia di destra, poi c’è scappato pure qualche gol, nove nelle oltre cento presenze, tra cui tre nell’anno dello scudetto». 

All’epoca si chiamavano ali tornanti«Ed io tornavo tanto: ha idea di che squadra fosse il Napoli? Giordano e Carnevale davanti, il Fenomeno che ci trascinava; quando toccava a me, dovevo preoccuparmi soprattutto di coprire, ma non solo. Ma anche a centrocampo: Romano, De Napoli, Bagni».

Nel Napoli c’è ancora. «Area scouting, con Gianluca Grava. Vado in giro a cercare talenti e spero che ce ne siano sempre altri a cui regalare le soddisfazioni che il destino ha regalato a me. Nascere qua significa, anche oggi, sognare di poter indossare questa maglia: io ho avuto la possibilità e poi m’è stato offerto dalla sorte una data memorabile non solo per me». 

Quanto ci pensa? «Quando vedo qualcuno festeggiare e ripenso a quelle ore, immediatamente successive alla conquista matematica: alla città che sembrava assediata. Avessero lanciato una monetina, non avrebbe toccato terra. Non so quanti fossero, da dove uscissero, da dove venissero, certo da tutta la Campania, o magari erano rientrati dai luoghi in cui erano stati costretti ad emigrare. Era una forma di contagio meravigliosa».

Però durò poco anche per lei. «Si pensò di cambiare e io non ho mai commentato quelle decisioni. Sono nel calcio da bambino, e con questa maglia addosso quasi per sempre, so che ci sono cicli. Forse il nostro venne considerato finito, oppure si ritenne giusto elevare la qualità del gruppo. Vissi da lontano sempre con partecipazione le partite dei miei ex compagni, questa è stata e rimane la mia squadra».

Scelga l’uomo della svolta. «Sarebbe facile dire Maradona, e sarebbe anche giusto. Però penso che lo scatto in avanti, complessivamente, avvenne con l’avvento di Allodi, un fenomeno al quale il destino ha tolto la possibilità di gioire con noi, per ciò che gli capitò proprio quando aveva lanciato il suo progetto. Ma ci rendemmo immediatamente conto, quando il direttore generale prese possesso del suo ruolo, ch’eravamo di fronte ad un personaggio di statura diversa, un carattere e una personalità e conoscenze strepitose. In campo, eravamo già niente male, però Allodi aggiunse – con Marino e con Bianchi – qualcosa di suo. E fu scudetto».

Può succedere ancora? «Vedi giocare questo Napoli e ti chiedi chi, in giro per l’Europa, dunque nel mondo, sia capace di fare lo stesso calcio. E’ bellissimo, è un incanto, è una sorgente di emozioni. E allora sospetti che possa succedere, però serve anche l’aiuto della sorte». 

Ne aveste voi? «A memoria, non ricordo. Se in squadra hai Maradona, è già quello il tuo grande colpo di fortuna. Se aggiungi Bruno Giordano, Andrea Carnevale, Nando De Napoli, Alessandro Renica. E già c’erano quei pilastri come Bruscolotti, come Ferrario, come Bagni, è chiaro che sei destinato a trasformare il sogno in realtà». 

Partita chiave: tutti dicono con la Juventus. «Ma anche la vittoria a Roma, direi. Il giorno in cui entrò Romano nel meccanismo e ci guidò con naturalezza. Era l’uomo che serviva, probabilmente. Ma quel Napoli era sensazionale: basta rileggere la formazione. E lo scudetto fu un sacrosanto riconoscimento per il lavoro della società, per la partecipazione della gente. Io penso che non vedrò mai più certe immagini: quel fiume di tifosi per le strade che pareva impazzire».

E Caffarelli, notoriamente controllato? «Esplosi anche io. Ma ero stordito, perché rientravo tra i protagonisti di un avvenimento storico. Qui il calcio è qualcosa in più di una passione, sa di fede, quasi fosse una religione».

Fonte: CdS

 

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