Amarcord – Rubrica di Stefano Iaconis: “Fango e arena”

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Il fango salta via a grumi scuri. Il campo è una distesa paludosa nella quale l’erba affiora in piccoli ciuffi malinconici lontano dal centro della lotta. Pare quasi abbiano paura, quei radi e spelacchiati fili erbosi, e si siano radunati, nascondendosi sul limitare del terreno di gioco, spaventati dalla potenza e dalla furia del vento e della pioggia che sferzano Marassi. Sampdoria-Napoli sta per passare agli archivi trascinata via da una tempesta che dura da 24 ore su Genova, una tempesta nella quale si è consumata una partita di football che a tratti ha assunto i contorni di una sfida pallanotistica. Solo muscoli erculei, polmoni di acciaio gambe come nodosi tronchi d’albero, e lo spirito guerriero dei ventidue in campo, hanno permesso la prosecuzione della partita. Boskov e Bianchi se ne stanno al riparo delle loro panchine. Silenziosi. Quello non è football, è una lotta tra titani. Fango e arena. Ogni calcio al pallone solleva una zolla di fanghiglia scura, melmosa, accompagnata da spruzzi d’acqua che si aprono a ventaglio frantumandosi in centinaia di goccioline che restano sospese nel crepuscolo che allunga le sue dita, ombra tra le ombre, galleggiando come minuscole meduse scintillanti. Sugli spalti ondeggiano ombrelli, resi inutili da ore e ore di pioggia battente, che ne ha piegata la resistenza. Alcuni giacciono in terra smembrati nel loro intreccio di stoffa e ferro leggero dal soffio della tramontana di gennaio. E’ un’apocalisse. Il Napoli resiste all’assalto della Sampdoria. Fatto di inerzia. Resiste stringendo i denti, rintuzzando ogni tentativo con il puro peso della voglia e della forza fisica. Bagni e Briegel sono due prodigiosi dioscuri tra i flutti della melma. Ercoli tra gli Ercoli. Hanno già consumato ben più delle dodici fatiche, stanno navigando verso l’Ade. Sono dovunque. Il manipolo di azzurri le cui maglie sono adesso così tanto annerite, da rendere irriconoscibile la numerazione, si batte furente. Il fioretto è rimasto nel fodero. Picca alabarda e spadone. E’ una giornata per cuori saldi. Per muscoli e sangue pompato veloce nelle vene. Fa così freddo che la gente ha dimenticato la fiera rivalità che divide, per antichi motivi, blucerchiati ed azzurri. Le mani sono intirizzite, i capelli gocciolano, le scarpe imbarcano acqua. Nessuno sa perché la partita non sia stata sospesa, dal momento che il rimbalzo del pallone è una chimera, ed i giocatori lo trascinano avanti con uno sforzo immane. Si aspetta solo la fine. Marassi pare un oceano solcato da due navi da guerra che si cannoneggiano tra onde altissime. Bagni esce in barella, mentre fioccano gli scontri e non c’è un solo tiro in porta. Almeno fino a quando Garella compie un prodigio incredibile, manco a dirlo con i piedoni fatati, su un colpo di testa di Vialli Un altro che trascina muscoli per il campo. Sulle nuvole che se ne stanno ad un passo dal prato il tuono orchestra una giornata da tregenda. Una quindicesima giornata del campionato di calcio italiano 1987-1988 che nessuno ricorderebbe, che potrebbe svanire inghiottita dai gorghi causati dall’ urlo del vento in quel mare di fango di uno stadio Marassi in rifacimento per gli imminenti mondiali italici se non fosse per il fatto che, su quel prato, in quel giorno di gennaio, c’è Diego Armando Maradona. E’ l’ unico che ha ancora la casacca, quel giorno bianca, sulla quale il numero 10 brilla visibile anche nel buio di un pomeriggio da notte polare. Di quella partita, la falange di tifosi napoletani al seguito della squadra, accoccolati vicini vicini per scaldarsi con i corpi nella gradinata loro assegnata, ricorderanno tre cose: il gelo artico, la pioggia inarrestabile ed il gol di Diego. Quando ogni cosa pare dover terminare dentro un logico zero a zero che fa da contorno a quella domenica, arriva un pallone dalla tre quarti, calciato a seguito di una punizione. La palla spiove altissima nell’area blucerchiata. Nessuno dei tifosi azzurri ricorderà mai quale fosse il giocatore sampdoriano che di testa respinse la palla, ma tutti ricorderanno, anche trent’ anni dopo, che Diego controllò la sfera, intrisa d’acqua, dai sedici metri, la mise giù, e poi, con una “puntata” micidiale, la scaraventò alle spalle di Bistazzoni. Fu un capolavoro. Trent’ anni dopo rivedo Diego, le braccia mulinate in aria, in una esultanza da fanciullo, gettarsi in tuffo dentro una pozza, sollevando fango ed acqua. E dietro di lui i suoi compagni, in un medesimo tuffo, andare ad esultare nuotando nella melma di Marassi. Fu fango, arena, ed un gol incredibile. Ci sono cose che non si possono dimenticare.

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Stefano Iaconis

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