Amarcord – Rubrica di Stefano Iaconis: “Sedici minuti”

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Quel giorno Diego indossava la maglia numero sedici. Un numero che fu premonitorio. Perchè ci vollero sedici minuti, quel giorno, per ribaltare il risultato di una delle partite più incredibili mai giocate al San Paolo. Sedici minuti. E per sedare una crisi. Tra una città ed il suo idolo. Una crisi che pareva lì lì pronta ad esplodere. Una fiaccola imbevuta di pece, lanciata dentro una Santabarbara. Quel pomeriggio di settembre Diego venne fuori dal tunnel che introduceva al terreno di gioco scalzo. Con i lacci annodati tra loro, al collo, a formare una collana dalla quale pendevano i suoi due scarpini. I riccioli color ossidiana più lunghi del solito e la barba incolta. Era scuro in volto, quel pomeriggio nel quale il sole batteva implacabile sulle scale del vecchio San Paolo, non ancora riammodernato per i mondiali imminenti, disegnando ghirigori dorati sul prato. Pozze di luce intervallate da minuscole zolle d’ ombra. Ed in una di quelle zolle Diego si sedette. Da solo. Senza che nessuno gli si avvicinasse. Perso nei suoi pensieri. Legati ad una indagine per cattive frequentazioni. Venti di fronda tra lui e Napoli. Andò in panchina, al calcio d’ inizio. Non finì nell’ undici iniziale. Quel giorno arrivò la Fiorentina al San Paolo. La Fiorentina di Roberto Baggio. Ed il suo genio. Quel giorno il divin codino si prese la scena. Per un tempo intero. Dinanzi al maestro. Ci mise dodici minuti appena. Segnando uno dei gol più belli mai visti da queste parti. Un gol che ricordò quello di Maradona a Messico ’86. Baggio prese palla sulla sua tre quarti, si involò sotto la luce del sole, avanzando come un prodigio tra le maglie azzurre. Saltò uno, due, tre napoletani, fintò il povero Giuliani in uscita e dopo sessanta metri di corsa depose la palla in rete. Da spellarsi le mani. Poi, un nulla dopo, si procurò un rigore. E fece due a zero dal dischetto. Mettendo il Napoli in ginocchio. Fino alla fine della frazione. Alla ripresa Diego ed il suo numero sedici vennero fuori dal tunnel caracollando. La gente urlò il suo entusiasmo. Il Re si mostrava alla finestra. Due scatti secchi sul posto. Un palleggio. Poi a rincuorare alla sua destra. Incitare alla sua sinistra. Ed ecco che, come in tutti i piccoli epici racconti che si rispettino, ci fu l’ immediato colpo di scena. Il segno di un destino che seguiva esattamente il copione. Il Napoli beneficiò di un rigore. Per un fallo di mani. L’ ombra della barba lunga di Maradona si profilò su quello stesso dischetto dove Baggio minuti prima aveva segnato il suo secondo gol. Il tiro fu fiacco. Degno di un momento come quello che il Pibe stava attraversando. Parve il rigore tirato da uno appena “normale”. Landucci lo parò. Bloccandolo. Inaudito, pensò’ il popolo sulle tribune. I venti di fronda aumentarono di intensità. Si vide Diego battere appena le mani, per il disappunto. Uno schiaffetto tra i palmi. Significò nulla. Signficò tutto. Pungolato nel suo orgoglio Maradona mise da parte il ricordo del malessere. Si arrotolò le maniche nel gesto della sfida. Il suo. La Fiorentina venne rinchiusa a doppia mandata nell’area di rigore. In un furioso assalto all’arma bianca. Quel numero sedici era dovunque. La catarsi del genio. Furioso. Feroce. Renica mise un cross, e Pioli lo tradusse nel più classico delle autoreti. Lo stadio emise un ruggito dalle fondamenta. Baggio provò ad uscire in sortita. Accompagnato dal suo genio. Per poco non ripetè la giocata del primo tempo. Per un soffio. Lo stesso soffio che spinse il tocco di Careca a scavalcare Landucci. La palla lemme lemme rotolò in rete. Accarezzando il palo. E poi ci fu il corner. Diego si prese la palla. La sfiorò con l’interno, assaggiandone la consistenza. La scodellò in mezzo. Sul primo palo. Dove Corradini, in tuffo, portò il Napoli avanti. Si vide Diego saltare in aria, i pugni al cielo, lo sguardo acceso. Il sorriso che rifioriva. Quel vento passò via. Spazzato fuori dal prato e poi dallo stadio. Che cantò il nome dell’argentino. Mentre il Napoli si issava in testa alla classifica. Da solo. In sedici minuti.

Factory della Comunicazione

a cura di Stefano Iaconis

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