Walter Novellino, l’eterno ragazzo: «Dalla A alla C? Amo il calcio. Attirato dalla piazza di Castellammare»

 Si muove come un ragazzino. Parla come un ragazzino. Si diverte come un ragazzino. Ma d’altra parte i 68 anni di Walter Novellino sono da ragazzino vero. Il calcio è il suo specchio di Dorian Gray, l’elisir di eterna giovinezza che va al di là di ogni ruga. Ecco perché è ripartito dalla Juve Stabia (in serie C, dove ha 11 punti ed è ancora imbattuta) dopo una carriera fatta di grandi soddisfazioni da calciatore (lo Scudetto della stella con il Milan) e da allenatore (quattro promozioni con quattro squadre diverse): «Una mattina ho guardato mia moglie e le ho detto: Ho voglia di allenare, e così è stato».

Per lei cosa vuol dire stare in panchina? «Avete presente le farfalle nello stomaco prima di un esame importante all’università? Ecco, esattamente quello. Nulla di meno».

E allora non può essere un caso che quest’anno in serie C ci siano allenatori di esperienza come lei e Zeman… «Con Zeman ci siamo visti di recente. Lui sulla panchina del Foggia, io su quella della Juve Stabia. Ci siamo abbracciati e ci siamo detti: Ma che ci facciamo qui?. E la risposta è stata in coro: che ce ne frega della categoria: il nostro è amore per il calcio, per questa gente e per questi ragazzi. A quel punto ci siamo messi a ridere insieme».

Come è nata l’idea Juve Stabia? «Avevo bisogno di qualcosa di diverso rispetto al passato e questa è una piazza che mi ha sempre attirato».

Perché? «Quando venivo a giocare qui vedevo il pubblico, ed era straordinario. Ritornare in C dopo tanti successi e traguardi importanti vuol dire ricominciare in onore della mia passione al di là di stipendi o gratificazioni economiche».

Quindi cosa è per lei la passione? «Insegnare. È la cosa che mi piace di più».

Insegnare il suo 4-4-2? «Il 4-4-2 dicono sia superato, ma io penso solo che bisogna avere gli interpreti giusti, come per ogni modulo. Ora si gioca tanto con il 4-2-3-1 ma sono numeri: in realtà si va solo dietro alle mode. La cosa più bella è insegnare la fase offensiva, perché quella difensiva è facile: ti copri ed il gioco è fatto».

Mentre la fase offensiva? «Richiede studio e attenzione. Per me è fondamentale aprire e allungare la squadra nel modo giusto».

Il suo maestro?  «In questi due anni ho studiato tanto, soprattutto da Bielsa. Mi intriga tanto. Lavora come Mazzone che quando ero un suo giocatore ad Ascoli faceva i rettangoli sul campo. Sono allenatori che fanno di tutto per migliorare un giocatore: nella qualità del movimento e nella postura del corpo. Poi ovviamente c’è Guardiola, ma lui fa un altro sport».

Ha detto di Mazzone… «All’inizio della nostra avventura all’Ascoli lo odiavo».

Davvero? «Mi chiamava il milanese perché venivo dal Milan, ma io sono tutt’altro. Pensava fossi una fighetta perché il lavoro del preparatore atletico all’inizio mi aveva massacrato. Facevo tremendamente fatica a stargli dietro».

E poi? «Col passare del tempo ne ho giovato di quel lavoro. Dopo mesi di rimproveri da parte di Mazzone ci siamo prima conosciuti e poi capiti: lo faceva per caricarmi e infatti ho reso tantissimo, forse anche di più di quando ero al Milan dove pure sono stato protagonista nella vittoria dello scudetto della stella».

Anche lei con i suoi giocatori ha un rapporto alla Mazzone? «Qui ci sono tanti ragazzi giovani e la cosa mi piace. È vero che siamo ancora all’inizio, ma sto riuscendo a far entrare nella testa dei giocatori le mie idee. Si vede che mi seguono».

Andiamo  più indietro: la fotografia dell’infanzia in Brasile? «C’è un po’ di tutto: mio fratello, il campo di calcio accanto alla scuola e un solo paio di scarpette che dovevamo dividere. Sono stato 12 anni in Brasile, a San Paolo. E i ricordi sono indimenticabili. Abitavamo nel rione della Moca dove ci sono tutti italiani e infatti ero tifoso del Palmeiras, la squadra fatta dagli italiani».

Poi siete tornati… «Mio padre, che aveva scelto il Brasile perché era un bravissimo meccanico di camion, volle ritornare in Italia. E ammetto che all’inizio non fu bellissimo per me».

Per fortuna ci sono i provini «Ma il più difficile non è stato nel mondo del calcio».

Ovvero? «Quando ero un giocatore del Perugia ho recitato in un film. E per avere quella parte ho dovuto superare il provino più difficile della mia vita. Il film di chiamava Il maestro di lingua, diretto dal figlio di Ilario Castagner che era il nostro allenatore. È stato divertente, ma che fatica ottenere quella parte».

Fonte: B. Majorano (Il Mattino)

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