Ottavio Bianchi: “Così Napoli mi ha insegnato a vivere meglio”

Così riporta l’edizione odierna del quotidiano

L’ultima volta che sono stato in costiera, gl i amici di Vietri sul mare mi hanno portato ad Amalfi, era un pomeriggi odi fine estate. Seduti a un tavolino in piazza del Duomo ci siamo gustati una sublime delizia al limone. Se chiudo gli occhi ne sento ancora il sapore in bocca. La sera prima ammiravamo il mare da Ravello, non credo di aver mai visto un panorama più suggestivo.Nelle settimane che ho trascorso a Bergamo in ritiro forzato, chiuso in casa per evitare il contagio, ho pensato spesso a quei luoghi. Dalla martoriata terra orobica sembravano una chimera. Un sogno lontano. Eppure pensare che un giorno li avrei rivisti mi ha aiutato a non uscire di senno. Scrivere con mia figlia Camilla un libro sulla mia vita è servito a mettere in fila tanti ricordi, molti sono legati a Napoli e dintorni. Non è un caso che il titolo della biografia, suggerito da Gianni Mura, sia Sopra il vulcano. Un gioco di parole, una citazione letteraria, e il riferimento a una carriera intensa, a tratti tellurica.


Sono arrivato alle pendici del Vesuvio a 24 anni, da Brescia. Un lombardo con la valigia in mano e tanta voglia di far bene. Fino a pochi giorni prima ero convinto di andare all’Inter. E invece un colpo di mano del presidente Fiore mi portò al Sud. All’inizio fu uno choc. Ricordo bene il viaggio in taxi da Capodichino alla sede del Calcio Napoli in via Caracciolo, lo sciopero dei netturbini, le strade invase da cumuli di rifiuti, il traffico caotico. Non ci volle molto perché scoprissi che quella città era tanto altro. Un concentrato di contrasti, occasioni mancate, storia, cultura e intrigante bellezza. A conoscere quel mondo mi aiutò mia moglie, Maria Mercede. Andava in avanscoperta, portandosi appresso i figli. Io allo stadio o a Soccavo, lei in giro con i ragazzi. Un giorno a Capodimonte, l’altro a San Martino, a spasso a Marechiaro o tra le bancarelle di San Gregorio Armeno, una capatina nella cappella Sansevero e un salto da Scaturchio. E poi c’erano le giornate al mare. Le gite in Costiera, con base a Vietri, di cui sono diventato, senza alcun merito, cittadino onorario. Le vacanze a Capri, ritrovata da allenatore grazie all’ospitalità di un caro amico dirigente del Napoli, Enrico Verga. Le escursioni tra i templi di Paestum, le ville di Ercolano e gli scavi di Pompei.
A Napoli devo molto, e non solo dal punto di vista professionale. Ho imparato a prendere la vita con filosofia, come viene, nel bene e nel male. Ad aspettare che passi la nottata, magari accarezzando un cornetto nascosto in fondo a una tasca. Pur restando un guaglione capatosta definizione del comandante Achille Lauro sono diventato un po’ partenopeo. Merito dell’affetto dei tifosi, che mi hanno compreso e accettato con i miei pregi e i miei difetti, e degli amici che ho trovato nella lunga militanza in città, prima da calciatore, poi da allenatore e dirigente. Se oggi mi guardo indietro – sarà che con l’età si diventa nostalgici – più che alle vittorie sul campo, allo scudetto e alle coppe, il mio pensiero va a quei novantamila che una domenica sugli spalti gridarono il mio nome per tutta la partita, al magazziniere che al San Paolo mi preparava un uovo sbattuto se mi vedeva un po’ giù prima dell’allenamento, al factotum del condominio di via Petrarca che agli inizi degli anni Settanta predisse che sarei tornato in città per vincere lo scudetto, e a quel signore di Portici, comandante di superpetroliere, tifoso azzurro, che dopo aver letto Sopra il vulcanosi è preso la briga di cercare il numero di telefono di mia figlia per dirle che grazie a quel libro ha rivissuto momenti indimenticabili. È per loro che mi sono deciso a mettere nero su bianco i ricordi di una vita. Non ho trovato un modo migliore per ringraziarli del loro sostegno”. Fonte: Il Mattino

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