Chiellini sull’ex azzurro: “Sarri è un utopista ed è il primo ad ammetterlo, un eterno insoddisfatto, insegue la perfezione” 

Chiellini, quindici anni di Juve, il lungo infortunio, la pandemia, il ritorno,  la ripresa del campionato, la strana Champions, il futuro, il libro  che fa discutere, Conte, Max e Sarri, e l’”insegnante” svedese.

 Pronto per qualcosa di insolito? Un’intervista nella quale parli bene di tutti.
«Ma io parlo sempre bene di tutti. Anzi, dico la verità».

Hai scritto un libro dal quale ogni giorno si estraggono perle non sempre apprezzate.
«Siete voi giornalisti… (sorride). Pensa che il mio timore iniziale era che uscisse piatto, un libro piatto. Tante volte uno scrive per essere polite. Il dubbio l’ho conservato anche dopo averlo finito e riletto». 
 
Ti sbagliavi. Perché hai deciso di farlo in carriera? «Perché quando finisce tu sai bene che…» 

… che non ti considera più nessuno? 
«L’ideale sarebbe stato un pelo prima della fine, quello il momento adatto. Devo essere onesto, il libro l’avevamo praticamente chiuso l’estate scorsa e sarebbe dovuto uscire a Natale. Poi c’è stato l’infortunio. Così siamo passati a Pasqua, per avere un inizio e una fine infortunio. Ci si è messo di mezzo pure il covid e siamo arrivati a maggio». 

In questi giorni Balotelli sta in qualche modo giustificando il giudizio – severo – che avevi espresso.
«Non ho scritto niente che già non si sapesse, mettiamola così».

Quindici anni alla Juve e un senso di appartenenza che affermi ripetutamente, anche attraverso battute non del tutto simpatiche sull’avversaria di sempre, l’Inter. 
«Quindici anni alla Juve sono tanti, ti entrano dentro, sicuramente mi considero fortunato per averli fatti, ma allo stesso tempo mi rendo conto che non è così semplice. La Juventus ti impegna, le pressioni sono continue, in questi quindici anni ho vissuto in paradiso, all’inferno, di nuovo in paradiso…».

L’inferno quando.
«Paradossalmente i due settimi posti. Più della serie B. All’epoca ero molto giovane, la mia situazione non era paragonabile a quella dei grandi campioni che avevo accanto. Gente che aveva appena vinto la coppa del mondo o giocato la finale e si ritrovava in B. Avevo ventidue anni appena, la B è stata un’occasione per confermarmi, consolidarmi nella squadra. I due settimi posti sono stati i più brutti perché, tornati in serie A, avevamo ottenuto un terzo, un secondo e c’era la sensazione di riuscire a competere per vincere. Due annate pessime dalle quali abbiamo dovuto sempre ripartire, da lì e nata un’avventura inimmaginabile».

Salto di palo in frasca. Il giudizio – sempre dal libro – sul morso di Suarez, che non hai condannato, ha aperto una discussione sui comportamenti in campo.
«Nel quotidiano è malizia, è scaltrezza. Luis è un giocatore straordinario, il suo fu un fallo di reazione e frustrazione». 

Anche la simulazione è una malizia. 
«La malizia è accentuare un contatto, oppure aspettare l’avversario che arriva e spostare la palla all’ultimo per subire il fallo. Quanti giocatori… Di Natale te la faceva vedere fino all’ultimo, poi la spostava all’improvviso, tu mettevi il piede ed era fallo. Così fanno anche i grandi campioni, pensa al rigore di Ronaldo col Genoa: ha aspettato il momento giusto, spostato la palla, intervento del difensore, rigore».

Queste cose le tolleri. 
«E’ il calcio. Se l’attaccante è più furbo di me, gli dico bravo».

Mi viene in mente una frase pronunciata da Vialli anni fa: «Il calcio non è uno sport, è un gioco e nel gioco è previsto anche il bluff».
«Alla fine è sempre un one to one, mors tua vita mea. Chiamalo come vuoi, ma tra il difensore e l’attaccante è così. Se si rientra nel limite dell’accettabile…». 

 Hai mai avuto la consapevolezza di aver ecceduto in – come la vogliamo chiamare – durezza, cattiveria? 
«E’ capitato, mai con cattiveria, quella mai».

Il duro dal cuore tenero. 
«Io mi reputo un buono, che non significa un santo. Entrare per far male, inammissibile. Mi è capitato di far male a qualcuno e ci son rimasto molto male. L’avversario è un giocatore come te».

Quali le differenze sostanziali fra le gestioni Conte, Allegri e Sarri? 
«Per Conte si è trattato di un inizio da zero, siamo partiti da una base molto bassa e probabilmente abbiamo costruito le fondamenta della casa. Antonio è una persona che, come ho anche scritto, ti fa entrare in un’altra connessione: ti dà tanto e pretende tanto. A volte ti esaspera, ma con lui fino alla morte. Secondo me ha creato proprio quella compattezza che è stata una base importante per la Juventus. Max è un esteta». 

Un esteta? 
«E’ molto più brillante, più leggero, nei cinque anni è cresciuto in modo esponenziale, sa abbassare e alzare i toni. Ha una sensibilità che pochi hanno e che non ho riscontrato in molte persone, e non parlo solo di allenatori. Conoscevo Max, ma poco più di un ciao ciao, pur essendo entrambi di Livorno. Negli anni mi ha stregato, conquistato, sì. Ci ha dato un boost ulteriore. Sarri è molto più meticoloso, quindi è più simile a Conte che non ad Allegri, ma con princìpi e sistemi differenti. Si basa tanto sui numeri, è un amante del gioco, del possesso palla. Lui è un utopista ed è il primo ad ammetterlo, anche quando fa il 90 per cento di possesso palla pensa di poter andare oltre, un eterno insoddisfatto, insegue la perfezione».

Il suo calcio è compatibile con l’idea juventina di vittoria?  
«Ogni allenatore vene giudicato sulla base dei risultati, quindi li deve ottenere sempre. Cambia il modo, non l’obiettivo».

Qual è stato l’impatto di Ronaldo sulla squadra? 
«Il primo anno una scoperta, un boost incredibile, un entusiasmo contagioso, è arrivato il messia, uno dei messia del calcio, come è stato con Pelé e Maradona così è con Cristiano e Messi. Ci ha alzato il livello non appena si è presentato, non a caso abbiamo fatto una stagione sensazionale fino alla conquista dello scudetto. Un ritmo difficilmente ripetibile. Un peccato essere arrivati ad aprile in quelle condizioni perché avremmo meritato di giocarcela alla pari fino in fondo anche in Champions. Quando hai uno così, devi giocare per lui, inutile nasconderlo. Cristiano è un valore aggiunto e va sfruttato come tale». 

Tornate a giocare dopo oltre tre mesi, non era mai accaduto in passato.
«Ho vissuto tutto con grande calma. Le decisioni affrettate sono sempre sbagliate. Era necessario valutare la curva, i dati, l’evoluzione della pandemia, capire come ci saremmo trovati alla scadenza di fine maggio. Intorno a Pasqua ero pessimista, perché con 6,700 morti al giorno sembrava impossibile pensare al campionato. A inizio maggio sono diventato molto ottimista, anche se quando siamo rientrati a Torino abbiamo avvertito la sensazione di vivere in una città fantasma, senza certezze, la paura di mettere il naso fuori e fare casa-campo. Dal 18, quando hanno riaperto l’Italia, non ho avuto più dubbi. Anzi, uno lo conservo ancora». 

Quale?
«La speranza di tutti noi è che venga tolta la quarantena. Le cose sono cambiate radicalmente, a metà maggio si potevano chiedere delle cose, a inizio giugno anche, ma il venti giugno no. Devono togliere questo ostacolo. Il positivo può realisticamente saltar fuori, ci sono mille persone intorno a una squadra, ma altrettanto realisticamente si deve proseguire, la malattia ha un’evoluzione incoraggiante. Certo diventa difficile decidere. Boris Johnson ha detto ai suoi chi se ne frega, prepariamoci a piangere i nostri morti e in seguito ha cambiato strategia, in Svezia sono andati avanti senza ripensamenti. La speranza è che ci permettano di completare la stagione». 

Voi, come il Napoli, avete ancora la Champions. 
«Ma tanto noi andiamo avanti lo stesso… The Last Dance di Michael Jordan l’avete visto tutti. Io non ho ancora tanti balli a disposizione. Questo è un anno strano: fai la coppa Italia, bum. Chiudi il campionato, bum. Inizia il terzo capitolo, la Champions. Non so se sia meglio o peggio». 

Molto peggio non può andare, visti i precedenti. «Però non è facile arrivarci, eh! Meglio arrivare in finale e perderla che fermarsi prima. Io ci sono uscito agli ottavi e nel girone e ti assicuro che è poco divertente». 

Sembra che da tempo sia in atto una sfida Buffon-Chellini per un posto di dirigente nella Juve. 
«Ma no, guarda… A parte che siamo fratelli, e poi comunque abbiamo abitudini, passioni, formazioni differenti: sono convinto che ognuno di noi possa essere utile alla Juve o al calcio. Non c’è antagonismo, siamo complementari». 

 Qual è l’avversario che ha sfruttato meglio i tuoi punti deboli?
«Cristiano mi ha fatto una caterva di gol, però quello che mi è entrato nel cuore è Ibra. Siamo stati compagni, all’inizio, io giovanissimo cercavo sempre di confrontarmi con lui, lo seguivo ovunque, anche per accreditarmi agli occhi dei compagni e dell’allenatore. Accettare l’uno contro uno con Ibra significava guadagnare in rispetto. Non mi sono mai tirato indietro e da ogni sfida con lui sono uscito più forte e convinto, ha tirato fuori il meglio. Lo ammiro tantissimo».

Venerdì non lo ritroverai. 
«Aspetto il 7 luglio. Quando è tornato in Italia, e sembrava impossibile, ho pensato che fosse destino».

Dimentichi l’appuntamento del 20 con la Lazio.  
«Perché tutti danno l’Inter per morta? Conoscendo l’allenatore e i giocatori non la trascurerei, in un mini campionato matto 9 punti sono niente. E se batte la Samp in casa i punti scendono a sei. Certo, la Lazio sta facendo un percorso bellissimo. Ha acquisito la concretezza e l’equilibrio difensivo che le mancavano, davanti ha sempre fatto paura, attacca benissimo, ricordo un 6-1 alla Samp. Alberto, Milinkovic e Ciro sono poesia. Si godano questo momento, ma non in eterno».

Chiuderai con l’Europeo? 
«Dopo l’infortunio faccio valutazioni anno per anno. Lo spostamento dell’Europeo aiuterà questa Nazionale a crescere in esperienza, la qualità ce l’ha. Conoscevo Mancini solo come avversario, mi ha sorpreso la semplicità con cui ha trovato la quadratura a fine settembre, dopo Polonia e Portogallo. Poche parole, pochi concetti chiari e tutto ha cominciato a funzionare a prescindere dagli interpreti».

Abbiamo talenti in tutti i settori, manca tuttavia un giovane marcatore alla Chiellini, il difensore della tradizione italiana.  
«Io sono partito da esterno sinistro, ma ero mediocre in fase difensiva, sprecavo troppe energie nell’attaccare, perdevo lucidità. Quando mi hanno messo centrale ho capito subito che lì era casa, quello l’abito che mi calzava a pennello. I giovani difensori? Sono tutti più belli di me».

 

Ivan Zazzaroni (CdS)

 

 

 

 

 

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