L’Intervista – Fabio Quagliarella a La Gazzetta: “Mazzarri sa come si deve muovere e cosa serve fare”

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«Il Signore ha voluto che finisse così»: detto senza rimpianti. Fabio Quagliarella, ventiquattro anni di professionismo, 717 partite giocate e 238 gol segnati, oltre a un’infinità di primati, ha chiuso la carriera il 4 giugno scorso al Maradona («in Serie A a 40 anni e mezzo»), con una città che lo ha celebrato come uno dei suoi figli calcistici più amati. Anche se poi, ammette, «mi sono ritrovato libero e da quel momento a livello mentale ho chiuso con il calcio giocato. Certo, mi mancano lo spogliatoio, l’adrenalina della partita alla domenica, i compagni, ma credo che sarà così per tutta la vita». Intanto lui si è trasformato in brillante opinionista di Sky (secondo capitolo della sua esistenza) e il prossimo anno si iscriverà al corso per il patentino di allenatore Uefa A, «per vedere in cosa sono più portato. Mi sto prendendo il tempo necessario per valutare tutte le proposte arrivate».

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Un finale di carriera ad alto livello.
«Mi sono allenato sempre sino all’ultimo giorno, non sono mai stato gestito, e questa è la cosa di cui vado più orgoglioso, potete chiederlo a qualunque allenatore, anche l’anno scorso facevo gli stessi allenamenti di un compagno di 20 anni».
Quella storia che lei avrebbe smesso perché non più integro fisicamente…
«Lo scriva a caratteri cubitali. Non ho smesso per motivi fisici, non è arrivata nessuno offerta interessante e allora ho detto stop. Fino a un paio di mesi dalla fine del campionato avevo deciso di smettere, poi vista la situazione societaria della Samp e vedendo che stavo bene, ho pensato di poter dare una mano a risalire. Avrei potuto anche firmare in bianco, i soldi non mi interessavano, mai avrei preso in considerazione altre soluzioni, era come un obbligo morale verso un club che aveva sempre creduto in me e dove sono stato benissimo. Ho avuto due-tre richieste da squadre di A , ma non le ho prese in considerazione. Allo stesso tempo mai avrei pensato di arrivare a giocare sino a 40 anni in A e, sono sincero, di questo ero davvero orgoglioso. Altrove avrei fatto il terzo o il quarto attaccante. Ma allora meglio dare una mano alla Samp».
Invece…
«Passata una settimana dopo l’insediamento della nuova proprietà, qualcosa avevo intuito. Poi con una telefonata alle dieci di sera a cinque giorni dal raduno mi dicevano che avrebbero puntato sui giovani. Sia chiaro: nessun rancore verso la società, ma questa è la realtà dei fatti. Ho chiuso quel giorno, e da lì nei giorni scorsi in un intervento televisivo su Sky era poi nata la mia battuta che non ero più nelle condizioni di continuare. Nella realtà ho smesso perché così avevo deciso».
Sorpreso dall’avvio in salita della Samp?
«Con un’’impostazione di squadra così giovane si poteva immaginare qualche difficoltà iniziale. Pensavo che sarebbe stata mantenuta un’ossatura di tre quattro giocatori che tenevano davvero alla Samp, e posso confermare che sarebbero rimasti in tanti. Poi, si sa, ti aspettano tutti al varco perché sei la Sampdoria quando una squadra viene a giocare al Ferraris. Mi sarei sorpreso semmai del contrario. Si vede, comunque, che Pirlo ha delle idee, ho parlato con alcuni miei ex compagni e me lo hanno confermato, anche se poi servono gli interpreti giusti per tradurle in pratica».
Alla Nazionale manca un bomber vero.
«Devi mettere in conto che stai in ritiro una settimana e dopo 4-5 giorni giochi: in azzurro c’è una pressione diversa, nel tuo club ti arrivano 5-6 palle gol, una la butti dentro, e sei un bomber. Nell’Italia no: si aspetta solo di vedere se c’è l’uomo giusto atteso da tutti e comunque non è semplice avere la stessa continuità che hai nel tuo club. Spalletti sta facendo girare un po’ tutti, credo che alla fine troverà una soluzione. Ci sono anche meno campioni rispetto ai tempi di Toni, Gilardino, Cassano, Di Natale, Totti Del Piero. Non solo: bisogna essere imprevedibili, devi inventarti qualcosa, come fanno Raspadori, Politano, Chiesa, Berardi».
Lei ha avuto Mazzarri a Napoli nel 2009. Può risollevare i campioni d’Italia?
«Innanzitutto la scelta mi ha sorpreso, ma secondo me De Laurentiis aveva bisogno di un allenatore che conoscesse l’ambiente e che aveva fatto benissimo a Napoli. Era fuori dal giro da un paio d’anni, ma sa come si deve muovere e cosa serve fare. Ovvio, il calcio si è evoluto, ho letto che lui dovrebbe riproporre il 4-3-3, siamo tutti curiosi, ma non ha un compito semplice».
In campionato vede la Juve in lotta per il titolo?
«Ha questo vantaggio, detto fra virgolette, di non giocare le coppe e non è cosa secondaria. E poi ha trovato solidità difensiva, credo sia fondamentale, Sicuramente la gara con l’Inter di domenica farà capire tante cose anche se i nerazzurri sono uno squadrone. Se la Juve ritrova anche il miglior Vlahovic se la gioca sino alla fine. Anche lo stesso Napoli e il Milan, però, se si ritrovano…».
A proposito dei rossoneri…
«Il Milan fa certe partite e quando lo vedi giocare dici: “Cavolo che spettacolo”, come in Champions con il Psg. Forse rispetto al passato ha una panchina meno importante, da fuori ho questa sensazione. Prima avevi Ibra, anche se magari non giocava. E poi qualcuno dei titolari non sta andando bene, è palese. Ma non diciamo a novembre che è tagliato fuori…».
La chiusura della sua carriera al Maradona, il 4 giugno scorso, con uno stadio in piedi ad applaudirla, è stata una sorta di risarcimento per un amore tormentato con la sua gente?
«Le dico questo. Quando sono usciti i calendari, ho visto l’ultima gara al Maradona. “Madonna mia”, ho pensato. Un segno del destino, pensavo. ma arrivarci proprio quel giorno con il Napoli campione d’Italia dopo 33 anni, e ripensando all’accoglienza che mi hanno fatto… è stato qualcosa che mi ha spiazzato, con quella targa ricevuta sotto la curva… Dopo, a mente fredda, ho pensato che se avessi scritto io la sceneggiatura di quel giorno non sarebbe stata così perfetta. L’unica pecca, e non è stata una cosa da poco, è che quel giorno la mia Samp ha salutato la Serie A. Un giorno però così speciale che è finito in un… quadro».
Ci spieghi meglio.
«A casa mia ho incorniciato l’ultima maglia, le ultime scarpette, l’ultima fascia di capitano, il gagliardetto, i parastinchi usati quel giorno».
La sua gioia più grande rimane comunque quella di essere ricordato oggi per i valori umani, prima che calcistici.
«Vero. Per me è il complimento più bello. Quando ti togli la maglia resta l’uomo e quello che tu hai seminato. Io ho fatto la gavetta dalla Serie C alla A sino alla Nazionale e questo mi rende orgoglioso. Ovunque io sia andato ho ricevuto attestati di stima. Mi hanno applaudito anche laddove non ho giocato, come a San Siro, a Cagliari, a Parma. Sono cresciuto avendo come esempi di vita gente seria come Maldini, Costacurta, Del Piero, Cannavaro, tutte persone perbene. Sono stato capocannoniere a 36 anni, ma a 40 cercavo ancora di migliorarmi. E’ finita così, ma l’ho detto, non ho rimpianti».
Fonte La Gazzetta dello Sport
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