Bruscolotti: «LA MIA VITA IN AZZURRO TRA VINICIO, DIEGO E I TIFOSI»

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Auguri Bruscolotti. Festeggia 70 anni domani Palo e fierro, 511 partite con la maglia azzurra, dal 1972 al 1988, capitano dopo Juliano e prima di Maradona, leader del Napoli di Chiappella, Vinicio, Di Marzio, Marchesi, Giacomini, Pesaola, Santin e Bianchi. «Il mio primo pallone è arrivato con la Befana: avevo 5 anni e da poco avevo perduto mio padre. Lui produceva torrone ma con la sua scomparsa mia madre smise di occuparsene. Vivevo tra nonni, fratelli e mia cugina che era rimasta orfana. Ero sereno nella mia piccola Sassano».
La prima partita?
«A 12 anni avevo il fisico massiccio, i miei capelli ricci mi facevano sembrare molto più grande. E allora i dirigenti falsificarono il cartellino e scrissero che di anni ne avevo 14 e così ho potuto esordire in terza categoria».
Sempre terzino destro?
«Macché. All’epoca quando si partiva in bus per una trasferta si faceva la conta. E una volta contro il Santa Maria di Contursi Terme arrivammo senza neppure un attaccante. E venni schierato ala sinistra e feci pure una doppietta».
L’esplosione al Sorrento?
«Devo tutto al suo allenatore, Giancarlo Vitali. Io stavo per tornarmene a casa dopo che il Polla mi aveva ceduto al presidente Andrea Torino. Solo che al Sorrento, dove ero arrivato su consiglio di Carmine Tascone, mi avevano proposto un contratto da 30 mila lire e io risposi che ne guadagnavo di più andando in Promozione. Una volta uscito dalla stanza incontrai Vitali e fu un colpo di fortuna. Mister me torno a casa. Lui pensò a dei problemi di famiglia. Quando capì che era una questione di soldi, mi portò a cena e mi confidò che avrei fatto il titolare con lui dalla prima gara e che di soldi ne avrei guadagnato presto molti di più».
Aveva ragione.
«Sì, rinnovai qualche tempo dopo poi a 220 mila lire al mese. E chi li aveva mai visti tutti quei soldi? Era stato quello poi un anno particolare. Il Sorrento si era scordato di segnalarmi alla Compagnia Atleti e così quando sono partito militare mi ritrovai a Verona, per un mese tra gli autieri a fare il corso per portare i camion. E senza campo per allenarmi. Lo facevo su un terreno poco fuori la caserma. E sette giorni dopo la mia partenza per il soldato giocammo al San Paolo contro il Napoli in Coppa Italia: io marcai Altafini e vincemmo pure…».
511 partite con il Napoli. Ricorda i suoi avversari?
«Mi toccava sempre il peggiore di tutti. Li ho visti da vicino quei campioni che i ragazzini collezionavano con le figurine: Riva, Boninsegna, Bettega, Pulici, Graziani, Prati, Rossi. Non ho nessuna maglia, perché all’epoca se osavi scambiarla ti ammazzavano. Ricordo il grande Gigi Riva che dopo la gara col Cagliari mi chiese quanti anni avessi: Signor Riva, ne ho 21. Cavolo, sei tosto davvero».
Ecco, tosto. Facile quindi arrivare a palo e fierro?
«Il pubblico di Napoli mi incoronò con questo soprannome che a me è sempre piaciuto. Rifletteva esattamente quello che volevo essere in campo, una roccia insuperabile. Proprio come il mio idolo: Tarcisio Burgnich. Era un esempio per me, anche di stile. Figurarsi quando me lo ritrovai libero nel mio Napoli, compagno di squadra. Un sogno che si avverava».
A chi ha detto di no?
«Tranne Juventus e Inter, mi hanno cercato tutti in quei 16 anni. E più di tutti il Barone Liedholm. Diceva che con me le sue squadre sarebbero divenute imbattibili».
Dei tanti allenatori che ha avuto, a chi è più legato?
«Luis Vinicio. Era un personaggio gigantesco. Lo ricordo ancora al Ciocco quando ci annunciò che avremmo giocato all’olandese. Io avevo al fianco Sergio Clerici e lo vidi scoppiare a ridere. Gli dissi: «Ma questo non era brasiliano? Me pare nu tedesco». Il mister non reagì, si accorse delle nostre risatine, delle gomitate e delle battute ma ci lasciò stare. Poi si rivolse a Juliano. Gelido. Capitano, dò una nottata per pensarci. Se non siete d’accordo me lo direte domattina e io toglierò il disturbo. Lui se ne andò e noi dicemmo: Mah, e vediamo come va».
Andò bene.
«Un calcio rivoluzionario. Anche se in fondo per me cambiava poco: sempre la punta più pericolosa dovevo marcare. Perdemmo lo scudetto a Torino, tutti dicevano per il gol di Altafini core ngrat ma anche Zoff aveva tolto un bel po’ di palloni dalla porta».
Furono anni di applausi a scena aperta.
«Eppure ricordo anche i dolori. Come quando ero al ristorante dopo un Napoli-Fiorentina e mi raggiunse la notizia della morte di mia sorella, travolta da un’auto fuori la certosa di Padula. Era il 1976. Vennero tutti al suo funerale e Di Marzio mi disse che se volevo potevo anche non giocare. Ma sapevo che lei era orgogliosa di me quando mi vedeva giocare e decisi di non fermarmi»
La delusione più grande è la sconfitta di Torino?
«Beh, pure la semifinale di Coppa delle Coppe con l’Anderlecht fu una bella mazzata. Io avevo segnato all’andata ma a Bruxelles capimmo che non contavamo nulla, che eravamo delle meteore rispetto a un club che aveva un grande blasone. E il cui presidente, si disse, aveva rapporti di affari con l’arbitro di quella notte».
Lo scudetto del 1987 è stata la sua più grande gioia.
«Maradona e la sua amicizia sono stati l’altro grande dono che mi ha portato il calcio. Gli ho dato la fascia da capitano una sera a Macerata quando ho capito che sarebbe stato il giusto riconoscimento per il campione che mi avrebbe potuto regalare lo scudetto. Lui mi disse: Non ti farò smettere senza aver vinto il campionato. E ha mantenuto la promessa».
A Soccavo lo marcava lei?
«Quasi mai, se non per gioco. Ma una volta lo marcai sul serio, in un Napoli-Argentina. Allora mi raccomandai a lui: Per carità, Diego, non farmi fare figure di m… con i tuoi giochetti che mi incazzo. E lui scoppiò a ridere: Stai sereno, me ne sto buono. E così fece».
Peccato per la Nazionale.
«Con Bearzot non scattò mai il feeling. Ero nell’Under 23 e non giocavo mai. Allora lo affrontai a muso duro: Se non gioco io che sono titolare nel Napoli ma giocano le riserve delle altre squadre, me ne sto a casa. Lui mi disse: Bene, se ne può tornare a casa anche adesso. Non me l’ha mai perdonata».
Che ruolo ha avuto sua moglie nella sua carriera?
«Mary è il mio faro ogni giorno, da quasi 50 anni. Ma era anche il riferimento di tutte le mogli dei calciatori azzurri. Perché quando due donne litigavano tra di loro, eri sicuro che prima o poi la lite avrebbe coinvolto anche i mariti. E sarebbero stati guai per la squadra».
È arrivato Spalletti.
«Io sono un tifoso all’antica. Per me quello che conta è vincere lo scudetto, non conquistare un posto in Champions. Spero che Luciano ci riesca».
Che rimpianto ha per i suoi 70 anni?
«Il mio club non ha mai rispettato la bandiera che sono stato. Vedo con tristezza quello che fanno le altre società per chi ha battuto i record di presenza e di fedeltà. Con me non è stato fatto nulla. Né il Napoli di allora, né questo Napoli». P. Taormina (Il Mattino)

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