Amarcord – Rubrica si Stefano Iaconis: “L’ Orco”

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L’ orco si aggira per il campo. Le spalle dalla postura ingobbita, i capelli arricciati fin sulle clavicole, i muscoli tesi nello sforzo della corsa, l’orco atterrisce. Ha dentro di sé la potente forza che viene dalla suggestione. Con quel lembo della maglia strappata che gli pende all’altezza della schiena come un vessillo di battaglia. Quella che ha consumato fino a quel momento contro la difesa del Napoli che ha cercato in mille modi di arginarne la crudeltà calcistica. Invano, perché Giorgio Chinaglia sta imperversando sul prato del San Paolo come un orco che incute terrore. Cinque punti separano gli azzurri dalla Lazio di Tommaso Maestrelli, lanciata verso il titolo, dentro una cavalcata che sa di romanzo. Cinque punti appena da colmare in quel pomeriggio di aprile che può fare la differenza. Se non ci fosse l’ orco. Perchè la Lazio non sembra essere la Lazio. E quando Clerici dopo una manciata di minuti ha infilato una punizione dal limite, lasciando immobile Felice Pulici, sul palo alla sua destra, Fuorigrotta ha tremato dentro l’urlo degli ottantamila. E la Lazio, la banda “guapa” che sta attraversando l’Italia come uno splendido spettacolo itinerante, al pari del nascente Napoli di Vinicio, suo fiero antagonista, guidata dal suo vate Maestrelli, e piena zeppa di calciatori dalle mille storie tenuti assieme con lo spago delle domeniche nelle quali quelle storie diventano una sola, e si mettono a raccontare calcio, la Lazio, sembra annichilita. Ma c’è l’ orco. E su una sortita di Petrelli, terzino dalla falcata ampia e dal cross suadente, quell’orco, chissà come, su quel cross ci arriva in tuffo. Si piega fino a sfiorare l’erba e con una torsione di testa impossibile, fa uno a uno. Poi si inchina a Petrelli. Perchè lui sa essere orco ed istrione. Attore consumato. Le gambe arcuate di Vinicio si mostrano dalla panchina, il profilo nel sole primaverile, mentre Maestrelli mostra i pugni e quelli della Lazio sono tutti in piedi. Per un lungo attimo si guardano, i due. Poi tornano a sedersi. E’ una sfida nella sfida. Canè calcia un angolo, da destra. Iuliano ha uno stacco olimpico. Sale oltre la testa di tutti, di Wilson, di Ghedin, di Clerici. Resta così sospeso che la fascia da capitano brilla nel luccichio della calda primavera. Segna un gol capolavoro. Il San Paolo bolle nuovamente. L’ onda sonora percuote la collina di Posillipo. Centossantamila occhi, allora, cercano l’ orco. Che fa gesti con la mano, infastidito. L’ orco che si getta come un ariete sulle mura del bastione azzurro. Inarrestabile. Percorre l’area di rigore famelico, alla ricerca del pallone buono. Che gli arriva su una uscita di Carmignani suicida. La sfera resta là, ballerina, irridente. Chinaglia si avventa in mezza girata, emergendo nella mischia. Due a due. L’ orco si carica la Lazio sulle spalle. Titanico. Vinicio e Maestrelli si guardano ancora. Clerici cade in area di rigore. Il Var oggi ci starebbe a discutere un mese. Ciacci, arbitro fiorentino e come qualunque toscano burlatore di professione, indica il dischetto. Protestano tutti quelli in bianco. L’ orco torreggia. Faccia a faccia, le mani dietro la schiena. Anche un orco sa essere deferente. Altri tempi, quelli nei quali la cavalleria era conosciuta anche tra le creature oscure. Clerici tira forte, Pulici tocca la sfera appena, ma non la ferma. Quei punti di distacco adesso, tornano tre. E tre resterebbero, senza l’orco. Lui attacca, sempre. Negli occhi un lampo di inaudita ferocia. Bruscolotti per arrestarne la immane protervia calcistica lo tira per la maglia. Che si tende, si gonfia, poi si strappa. E lui, l’orco resta così. Con quel brandello pendulo che lo fa ancora più riconoscibile. E quando Ciacci, in vena di riparazioni, concede un rigore alla Lazio che oggi farebbe audience in una non stop studio fino all’alba, lui, Giorgio Chinaglia, centrattacco di una Lazio indimenticabile agli occhi di chi ama il football oltre ogni confine, va sul dischetto. Il brandello della maglia trema quando colpisce la sfera senza mirare. Una botta secca, al centro della porta. Impossibile da arrestare, come lui. Poi l’orco corre sotto la curva napoletana. E si inchina di nuovo. Piovono applausi. E lui ringrazia. Si, vero, altri tempi. Troppo lontani, quelli dove imperversavano rivalità e dentro quelle fioriva rispetto. Tre a tre. Quei punti resteranno cinque, alla fine di quella giornata. La Lazio vincerà il suo primo scudetto della storia. Come in una favola. La favola di una squadra meravigliosa guidata da un orco terribile. Che quel pomeriggio, da solo, fermò il Napoli. In una partita indimenticabile. Indimenticabile come tutte le cose più belle. Quel calcio. Quella Lazio. Quel Napoli.

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Stefano Iaconis

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