Amarcord – Rubrica di Stefano Iaconis: “Monsignor malinconia”

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Fu incredibile vederlo entrare in campo con una calzamaglia nera, indossata a corredo dell’ immancabile maglia verde, suo autentico simbolo di riconoscimento. Il San Paolo sorrise. Perchè era un giorno di febbraio, e si, spirava un vento di tramontana, ma era la prima volta che un portiere si presentava in campo così abbigliato. Alla stregua di un estremo difensore di quei tornei dell’Europa del nord che, all’epoca, apparivano immortalati da televisioni ancora troppo in bianco e nero. Massimo Mattolini, però, era detto El Mat. Il matto. Aveva nel suo cognome la desinenza che lo faceva tale. E malinconico, come quei boschi che si possono scorrere sul monte Serra, la piccola roccaforte che guarda su Bagno Terme, dove era nato, al confine tra Pisa e Lucca. Boschi percorsi da torrentelli cantilenanti fiancheggiati da pini e castagni. Si sa che i pisani sono allegramente capaci di minuscole follie e Massimo Mattolini non era da meno. Dicevano lo fosse, matto, per via di quel suo esser capace, tra i pali, di commettere, da un certo punto della sua carriera in poi, errori clamorosi. Ed a causa di quegli svarioni, spesso al limite del comico, si guadagnò un altro nomignolo affatto brillante, passando alla storia calcistica come “Saponetta”. Quel giorno di febbraio, a Fuorigrotta, contro l’Atalanta, ne commise uno, dei suoi incredibili errori. Quello che fruttò il pareggio orobico, grazie ad una sua uscita a vuoto. Finì due a due, l’autorete di Stanzione fece il resto. Lo chiamavano anche Monsignore. Per via di quella sua capigliatura a ciuffi che diradava quasi in una tonsura, sul cranio, rendendolo, assieme a quella sua andatura dinoccolata, associata ad una figura magra ed ossuta, simile ad un prelato di campagna. Di quelli con il breviario infilato sempre sottobraccio, ed il cappello a tesa larga ad ombreggiare il volto. E per coprire quella sua tonsura, indossava un parrucchino, perfino in campo, quando si schierava tra i pali. Tempo dopo un altro sportivo famosissimo coprì la sua calvizie su un campo di tennis con il medesimo artifizio. Andrè Agassi. A Mattolini, il parrucchino volò via mentre si tuffava a respingere una conclusione in un Fiorentina-Perugia, ma lui, incurante, lo raccolse e se lo ripose sul cranio, alla bell’ e meglio. Fu epico. Era cresciuto nella “sua” Fiorentina, e poi ceduto in prestito al Perugia, dove aveva dimostrato di possedere doti non comuni, dentro quel suo allampanato fisico da clown più che da portiere. Sembrava destinato ad una brillante carriera. Ed infatti era tornato alla casa madre, richiamato in maglia viola come secondo di Superchi. Vincendo una coppa Italia da protagonista. Una brillante carriera in volo. Fino a quel momento della stagione 75 76 era stato impeccabile. Scomodando paragoni leccabaffi con il ragno nero Cudicini, del quale ricordava l’altezza e le movenze da insetto, con quelle lunghe braccia che arrivavano dappertutto. Tutto filava liscio. Il nostro affrontò quella, partita, con un’aura di predestinato che pareva illuminargli la incipiente pelata. Primo tempo soporifero e zero a zero accademico. Poi, il disastro. Totale. Cross di un imberbe Cabrini, e Mattolini a vuoto, con la palla che finisce in rete senza che nemmeno Boninsegna, saltato ingannevolmente fuori tempo, l’avesse sfiorata. Pochi minuti e gol di Benetti, dal limite, su corto rinvio maldestro del portiere toscano. Infine, su un poderoso destro da trenta metri di Cuccureddu, Bettega lesto lesto infilò in rete la sfera sfuggita al controllo del portiere toscano tuffatosi comicamente. Mattolini visse un pomeriggio da incubo. La Juve travolse la viola tre a zero e da quel momento ogni gol subìto dalla Fiorentina, nel prosieguo della stagione, fu per una sorta di maledetta proprietà transitiva, addossata al portiere toscano. Cosa che portò, alla fine di quell’ annata, al passaggio tra le fila del Napoli di Di Marzio, dopo uno scambio con Carmignani. Non sappiamo se i dirigenti partenopei avessero battuto il cranio, quando affiorò loro il pensiero di affidare i pali della porta di un Napoli già penalizzato da una rosa non propriamente di prima qualità, ad un portiere palesemente in difficoltà, fatto sta che Mattolini sotto il Vesuvio, marciò di pari passo con la veloce caduta dei suoi capelli. Loro cadevano a ciocche, lui seguiva il loro destino. Vorticando malinconicamente verso un punto di non ricrescita. Cioè, di non ritorno. Ventinove presenze, ventotto gol subiti. Fu un anno di tremori in casa ed in trasferta. Mattolini, arrivato già annunciato da una pubblicità che invocava la catastrofe, fu bersagliato anche da una mala sorte che pareva essergli piombata addosso come un presagio funesto. Ispirava timore, in un popolo superstizioso per natura, abituato a convivere con la nemesi da “Venerdì 17” da sempre. Mattolini pareva inseguito dalla nuvola di Fantozzi. Ogni volta che gli avversari arrivavano nei pressi della porta napoletana, un silenzio religioso affollava gli spalti. Si tratteneva il fiato fin sul lungomare. Molti chiudevano gli occhi e pregavano San Gennaro. Mattolini divenne il bersaglio del popolo del San Paolo che non gli perdonò mai nulla. E che dal primo errore ne invocò la defenestrazione. Durò un anno. Poi fu velocemente ceduto al Catanzaro, che lo girò al Foggia, che a sua volta lo sbolognò alla Sambenedettese, in una escalation al contrario che lo condusse tristemente fino alla terza divisione, all’inizio degli anni 80. Curioso come, tutte le squadre citate nelle quali militò, conobbero la retrocessione. Aveva terminato da tempo la carriera quando si ammalò, di una grave forma di disfunzione renale che lo condusse alla morte, giovanissimo, all’ inizio degli anni 2000, a soli 56 anni. Fa pensare il fatto che, di quella Fiorentina, nella quale aveva militato ad inizio carriera, molti si spensero per tragiche vicende di salute. Da Saltutti a Galdiolo, passando per De Sisti, che contrasse una malattia frontale assai rara. Si parlò di doping, del quale la società gigliata faceva largo uso, ma non si seppe mai con certezza la verità. Mattolini è stata una meteora. Una stella senza luce nel firmamento del cielo calcistico napoletano. Accompagnato dal ricordo di un sorriso buffo, quando viene ricordato dai nostalgici di quei tempi. Il sorriso di chi ne ha viste tante. Di storie così.

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Stefano Iaconis

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