D’Ambrosio a 360 gradi: partito da Caivano, un nerazzurro dal sangue azzurro

«Rappresento quella Caivano che ce l'ha fatta»

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Intervista da Il Mattino – Si può aver collezionato più di 300 presenze in serie A, aver giocato in Champions League, vinto uno scudetto, indossato la maglia della Nazionale e non aver dimenticato mai da dove si è partiti. La vita in sintesi di Danilo D’Ambrosio che all’alba dei 37 anni (domani soffierà le candeline, auguri!), ha deciso di dire basta con il calcio. Guardandosi alle spalle ci sono i sacrifici, le serate in pizzeria ad aiutare il papà, le litigate e gli abbracci con il gemello Dario e la sorella Ines. Ma non solo. Più di 20 anni di calcio e soddisfazioni di un ragazzo partito da Caivano e arrivato lontano: anzi in alto.

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E ora?
«Ho tanti altri obiettivi da raggiungere. Di sicuro voglio fare qualcosa nel mondo del business. Mi è sempre piaciuto il settore del food e ho anche una holding che si occupa di investimenti in startup. E poi ho un sogno nel cassetto».

Apriamolo…
«Mi piacerebbe lavorare con i giovani. Per il vissuto che ho avuto, sono padre di due bambini di 6-8 anni, vedo le loro difficoltà nel percorso di crescita. Mi piacerebbe crescere prima uomini e poi calciatori. Io ho avuto la fortuna di conoscere Carmine Tascone che in quegli anni alla Damiano Promotion ci insegnava innanzitutto a vivere. È stato un visionario perché nella sua squadra riuniva quelli che secondo lui erano i migliori della Campania e dava loro la possibilità di farsi vedere da squadre professioniste».

Lei oramai vive stabilmente a Milano, ma non ha mai nascosto il fortissimo legame con la sua Caivano.
«Caivano per me è radici. Vuol dire quelle partite sul campo di terra con le porte in legno, quei pomeriggi a giocare fino al tramonto, le corse in bici, le giornate intere giocate e nascondino. L’ho vissuta fino a 13 anni. Certo, ora rappresento la Caivano che ce l’ha fatta, ma so di aver fatto il meglio seguendo i miei valori e sento l’apprezzamento da parte della gente di Caivano e di Napoli in generale. Ultimamente Caivano non ha avuto momenti di gloria, ma negli ultimi 2-3 l’ho vista migliorata, l’ho vista diversa con quella voglia di rivalsa: c’è tanta brava gente che ha voglia di lavorare, mandare i figli a scuola e farli crescere in un determinato modo».

Lei la vive ancora.
«Quest’estate ci sono stato più a lungo e ho portato i miei figli a giocare a calcio nel campetto comunale. Mi è sembrato di tornare alla mia infanzia. Ho detto ai miei figli: questo è il modo in cui sono cresciuto io. Erano scugnizzi educati. Bisogna dare luce anche a queste realtà».

C’è un elemento ricorrente nelle sue parole: i suoi figli.
«Per me la famiglia è tutto. Lo è stata quando il figlio ero io, lo è adesso che sono papà. Ai miei figli dico sempre che “C’è solo un modo per fare le cose: farle bene e con onestà. Senza pressione e senza ansia”. E questo insegnamento per me è sacro».

E la sua famiglia?
«È stata tutto per me. Se non avessi avuto genitori predisposti al sacrificio per i figli non sarei mai arrivato. Ma non bastava. Non mi hanno mai fatto vivere con la pressione di dovercela fare a tutti i costi. Mi hanno fatto vivere quel sogno con leggerezza, che non significa superficialità. In famiglia abbiamo un rito».

Ci dica.
«Ogni volta che si tornava a Caivano la domenica si pranzava a casa di mia nonna. Non l’ho mai vissuto come un obbligo, ma come un piacere. E oggi è lo stesso per i miei figli».

E sua moglie?
«Non avrei potuto sposare una donna diversa da Enza. È cresciuta come me. Ci siamo conosciuti quando avevamo 17 anni e a distanza di 20 anni ricordo ancora il vestito verde che indossava quella sera a casa di un amico, quando l’ho vista per la prima volta. Per conquistarla la invitai a mangiare una pizza a Frattamaggiore e poi invece di chiederle il numero di telefono le regalai un braccialetto».

Un pegno d’amore?
«All’epoca giocavo nella Primavera della Fiorentina e venivo a Napoli un paio di volte al mese. Da quella pizza al nostro secondo appuntamento passarono circa 15 giorni, ma il desiderio di vedersi è stata la nostra forza. Ci siamo conosciuti il 21 maggio 2006 e ci siamo fidanzati a novembre dello stesso anno. All’epoca non esisteva Whatsapp, ci sentivamo su Msn in chat. Ci ha unito l’amore per le cose semplici: passiamo da un ristorante stellato a una pizza mangiata per terra con vista sul tramonto».

A proposito di tramonto: come ha maturato l’idea di smettere con il calcio?
«Non è mai facile dire basta, ma arriva quel momento in cui capisci che non hai più gli stimoli di una volta. L’ultimo anno a Monza mi ha un po’ scottato, retrocedere non è un problema, ma come è successo a noi mi ha deluso perché sono un professionista che da sempre il massimo. Per quanto possa amare il calcio non avevo più quelle energie mentali per fare uno switch e ripartire».

E oggi cosa si sentirebbe di dire al bambino Danilo?
«Innanzitutto gli farei i complimenti per dove è arrivato. Perché ha raggiunto il suo obiettivo con quei valori importanti trasmessi dalla famiglia. Quel bambino ha avuto costanza, ha imparato il sacrificio e la resilienza. È stato caparbio. Quel bambino che è cresciuto e da ragazzo esultava davanti alla tv per il Triple dell’Inter e si diceva “un giorno giocherai con quella maglia” e ce l’ha fatta».

E all’adulto Danilo cosa dice?
«Ora nel business fai sempre lo stesso seguendo i tuoi valori».

Lei è napoletano, nato a Caivano, ma tifa Inter…
«Quando ero piccolo le partite erano trasmesse solo su Tele+ e in casa non avevamo la possibilità di vederle. Così andavo dal mio vicino che era malato dell’Inter. In quel periodo c’erano Ronaldo, Baggio e altri campioni. Praticamente si vedeva solo l’Inter. Ma essere tifoso neroazzurro non vuol dire non sentirmi napoletano».

Ovvero?
«Sono tifoso di Napoli, di questa terra e delle sue bellezze di ogni genere. Quando nel 2015 organizzarono la celebrazione per omaggiare Pino Daniele al San Paolo, andai allo stadio di “nascosto”, senza dirlo a nessuno. Napoli-Juve si giocava la sera e io avevo giocato a ora di pranzo con l’Inter. Volevo condividere con il mio popolo il tributo a un gigante. Ho scelto anche la sua canzone “Amore senza fine” come colonna sonora del fleshmoob che ho organizzato a Milano per chiedere a Enza di sposarmi. Insomma: ho il sangue azzurro e ho voluto che i miei figli nascessero a Napoli».

In casa sognavate in due di diventare calciatori…
«Dario è il mio gemello e abbiamo condiviso l’inizio del percorso. Nelle giovanili della Salernitana eravamo insieme e mi è stato di grande aiuto. Poi le strade si sono separate, ma il legame è rimasto indissolubile. Da piccolini litigavamo ogni minuto, ora siamo inseparabili. Anche perché come dicono gli amici di Caivano, sono rimasto Danilo e non sono mai diventato D’Ambrosio. Anche quando ho coronato il sogno di giocare in serie A o indossare la maglia dell’Inter».

 

 

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