Maurizio de Giovanni: “L’addio alla banca per quel mestiere di narrare agli altri”

Il 5 luglio 1981, una domenica. Giovanni De Giovanni, avvocato, è stroncato da un infarto mentre è in strada, a Napoli, in «una strada dalla quale si vedeva il mare», come ricorda il figlio Maurizio. «Un padre, allora, era una colonna. Una radice forte e allo stesso tempo distante, un supporto irrinunciabile con il quale non si parlava molto, ma sul quale si poteva sempre contare», dirà qualche anno dopo, quando il tempo avrà stabilito una sufficiente distanza con quel giorno e con la paura vissuta dopo aver scoperto di non avere più il futuro immaginato, ma un altro tutto da identificare. «Fu il luglio del Grande Cambiamento», scriverà, utilizzando le maiuscole come il Raffaele La Capria della Grande Occasione in Ferito a morte o il Nicola Pugliese dell’Accadimento Straordinario in Malacqua, «quello che non lasciò nulla in piedi e che mi costrinse a una ricostruzione che non sapevo portare a termine, e nemmeno cominciare».
Così, Maurizio De Giovanni a neanche 23 anni, 7 mesi dopo il terremoto del 23 novembre 1980, da primogenito capofamiglia si ritrova a dover sconvolgere sogni e progetti. Per sostenere la madre Edda, il fratello Fabrizio e la sorella Valentina, va a lavorare in banca: tutto il resto è accantonato, magari rimandato, collocato in un tempo sospeso in attesa di qualcosa. Un po’ come nelle scorse giornate nella sua casa al Vomero, avvolto in una dimensione di «privazione delle certezze».
de Giovanni, però poi c’è sempre una svolta, un nuovo inizio, una ripresa che nel suo caso ha portato a recuperare i sogni che parevano svaniti. «Sì, è vero. Lavoro in banca, metto su famiglia, mi separo, divento padre affidatario dei miei due figli, Giovanni e Roberto. E scrivo romanzi e racconti».
Tanto che ed è ormai noto nel 2005 dopo aver frequentato un corso di scrittura-lettura umoristica e sollecitato proprio dai suoi colleghi bancari partecipa al concorso letterario Porsche che si svolge al Gambrinus, con in giuria Gianrico Carofiglio e Carlo Lucarelli. Quasi che il destino restituisse una possibilità. Lei vince, pubblica il primo libro «Le lacrime del pagliaccio» con protagonista il commissario Ricciardi a cui oggi è dedicato un posto con targhetta proprio al Gran Caffè su Piazza Plebiscito, diventa uno scrittore da best seller con 31 milioni di copie vedute nel mondo, versioni televisive con tre serie su Raiuno di straordinario ascolto, club di lettori sparsi ovunque. Questo è il nuovo Grande Cambiamento? «Io ho sempre amato scrivere e raccontare. Lo facevo a scuola e anche dopo, ma senza aver preso mai in considerazione di intraprendere un percorso narrativo. Per altro, in banca ero contento del mio lavoro: non posso dire che ne fossi appassionato, ma io ho sempre preferito lavorare per vivere e non vivere per lavorare. In ufficio sono rimasto 34 anni, anche dopo i primi libri pubblicati».
Fino al 15 dicembre 2015, quando da dirigente bancario si dimette per consegnarsi esclusivamente alla scrittura e al successo. «Nel 2012 mi assegnano il Premio Scerbanenco per Il metodo del coccodrillo, nel 2014 anno del mio matrimonio con Paola – escono In fondo al tuo cuore, un nuovo romanzo su Ricciardi, e Gelo per i bastardi di Pizzofalcone, sull’ispettore Lojacono e la sua squadra di poliziotti. Insomma, non c’è più soltanto il commissario Ricciardi e la Napoli degli anni ’30 da raccontare, ma anche le storie del distretto di Pizzofalcone ambientate nella contemporaneità: il materiale si arricchisce e poi verranno Sara e Gelsomina Settembre. Capisco che la faccenda si fa seria e mi dedico al mestiere di narratore».
Che cosa significa per lei essere un narratore? «Io mi considero un uomo narrativo. Nel senso che mi piace raccontare gli altri. Non me, non amo l’autobiografismo, non sopporto gli autori che guardano al proprio ombelico. Devi essere Hemingway per poterlo fare. L’autofiction mi diverte, parecchi miei colleghi scrittori, che sono pure cari amici, la frequentano e io mi diverto a leggerli, a volte anche molto. Ma questo non è il mio mondo. Io preferisco raccontare storie degli altri con la massima partecipazione emotiva».
Napoli, in questo, l’aiuta parecchio. «A Napoli è davvero difficile, se non impossibile, non raccontare storie degli altri. Anche i personaggi minori dei miei gialli chiedono di prendere voce, di salire alla ribalta, di avere storie tutte per sé. La città offre narrazioni, è la sua lingua che conserva la grandezza di Giambattista Basile in Lo cunto de li cunti. Diventa addirittura un problema il doversi limitare, trattenersi e non raccontare tutto ciò che emerge e si impone all’attenzione. Avrei materia per i prossimi 5 anni».
Ma come sarà raccontare dopo quello che sta accadendo? Come la scrittura recepirà gli effetti della pandemia da Coronavirus? Ne sarà influenzata e in che modo? «Sono convinto che del trauma resterà l’esperienza sofferta. Come è successo negli Usa dopo l’11 settembre 2001. Rimarrà la traccia della sospensione spazio-temporale in cui stiamo vivendo. Dopo riconquisteremo il piacere delle cose ritrovate, soprattutto quelle piccole, le più ovvie e banali. Riprenderemo a raccontare storie».
Lei ha già pensato come? «Beh, nelle settimane scorse sarebbe dovuto uscire Una lettera per Sara da Rizzoli, ma ho preferito aspettare la riapertura delle librerie, ormai ci siamo. Sono luoghi fondamentali che diffondono beni di prima necessità e combattono la solitudine. Purtroppo sono state chiuse da chi invece credeva il contrario. Sbagliando».
Ha mandato il commissario Ricciardi in pensione. Ritornerebbe indietro? «Non guardo mai al passato. Nella mia vita non mi pento di niente. Anche quando scrivo: non rileggo mai. Non si torna mai indietro».

Fonte: Il Mattino

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