Coppola si racconta: «Ora insegnerò e studierò per diventare allenatore»

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Nando Coppola si è raccontato a Il Mattino, tra passato e presente:

 

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«Avevo un mezzo impegno da parte del Verona, poi in agosto quel discorso è venuto meno e non c’erano troppe possibilità in giro. Così ho deciso di smettere».


Partiamo da quella domenica: il Bologna vince 5-1 al San Paolo, tra i pali del Napoli c’è il ventenne Coppola, che pochi mesi prima aveva vinto il campionato di serie B.
«La gioia della promozione e l’amarezza per quella sconfitta che segnò la fine di un’esperienza molto breve e molto intensa: si può riassumere così la mia storia nel Napoli. Era cambiato tutto in pochi mesi: c’era un presidente nuovo (Corbelli, ndr) che proponeva un portiere dopo l’altro mentre il presidente vecchio (Ferlaino, ndr) voleva continuare a puntare su di me. Non c’era più Novellino in panchina ma Zeman, che mi dava fiducia però contemporaneamente chiedeva ai dirigenti un collega più esperto che mi guidasse, il compianto Mancini. Avvertivo un carico enorme di responsabilità e pressioni quella domenica: andò male e chiusi col Napoli, trasferendomi proprio al Bologna per diventare il vice di Pagliuca, un monumento del calcio italiano».


Eppure quella storia era cominciata benissimo.
«Nel campionato di Novellino ero stato spinto in porta a furor di popolo. Venivo dal vivaio, mi conoscevano in pochi, però potevo contare sulla stima di Montefusco, l’allenatore che mi aveva lanciato in serie A un anno prima, e anche di Taglialatela e Di Fusco. Diventai titolare e arrivammo in serie A dopo una stagione impegnativa. Sono rimasto legatissimo a questa terra e a questa maglia. Ho cercato di rientrare nello spogliatoio del Napoli, non importa se da secondo o terzo portiere, ma non vi sono riuscito e questo resta un rimpianto per me. Ne ho anche un altro. Avrei dovuto riflettere prima di trasferirmi a Bologna 18 anni fa e sistemarmi alle spalle di Pagliuca, che voleva sempre giocare per battere i record di presenze. Ma una buona carriera l’ho fatta lo stesso: sono orgoglioso di aver vinto sei campionati di serie B e aver giocato trecento partite. Ho fatto tanta B per scelta perché mi piacevano i progetti di alcuni allenatori».


Ne ha avuti tanti, in serie A anche Ancelotti.
«Lo conobbi nel Milan, dove però non avrei mai giocato. Era l’estate del 2006. La squadra, penalizzata in classifica dopo lo scandalo Calciopoli, fu costretta a giocare il preliminare Champions: Ancelotti gestì in maniera perfetta una situazione obiettivamente difficile, perché c’erano da preparare i nazionali campioni del mondo reduci da una breve vacanza. Bravissimo sul piano tecnico e soprattutto umano, Carlo. Ricordo quando nacque mia figlia Benedetta. Ero in imbarazzo, non sapevo se e come chiedere un permesso per andare a Napoli. Galliani, Ancelotti e Maldini mi dissero: parti subito, vai ad abbracciare la tua bambina».


Tre figli con Titti, napoletana come lei. Ciro e Nicolò seguono la strada di papà?
«Giocano a calcio nella Athletic Pama, un centro sportivo in via Piave. Ciro portiere come me, a Nicolò piace invece stare al centro del gioco. Vorrei che prendessero il meglio di questo sport».

 

Come organizzerà adesso la sua vita?

«Ho fatto un po’ il turista, forse un po’ troppo a lungo, nella mia città. E da turista l’ho vista sempre più bella. Ho due idee e a una, in particolare, tengo molto: gestire una struttura sportiva a Soccavo, dove sono calcisticamente nato e cresciuto, per allenare ragazzi, magari qualcuno potrebbe essere affascinato dal bellissimo mestiere di portiere. Poi mi iscriverò al corso allenatori, ovviamente per portieri: ho conosciuto tante persone in questo mondo e potrei avere un’opportunità di lavoro».


Il Napoli ha un portiere ventenne come Coppola nel 2000: Meret sembra un predestinato.
«Lo è, siamo stati anche avversari e uno dei miei allenatori, Di Iorio, lo ha svezzato a Udine. Poco spettacolare, lineare, dà priorità alla tecnica. Io vengo dalla scuola di Taglialatela, che metteva davanti a tutto quell’aspetto. Proprio osservando la gestione dell’infortunio di Meret ho colto una differenza rispetto al passato: questo Napoli tutela molto di più i propri giocatori e infatti non ha forzato i tempi, il ragazzo ha giocato soltanto quando c’è stata la piena certezza sul suo recupero fisico».


Le ultime stagioni da secondo o terzo portiere: un peso difficile da sopportare?
«Penso che la gerarchia non conti se si ha voglia di dare un contributo veramente professionale in uno spogliatoio. L’unico dispiacere è aver visto giocare colleghi che facevano poco, davvero poco, per meritare il posto. Ma ho avuto sempre rispetto delle scelte di un tecnico e alla fine le mie soddisfazioni professionali le ho conquistate. Ne ho visti tanti di personaggi in oltre vent’anni di carriera, ognuno con i suoi pregi e i suoi difetti: di me nessuno potrà dire che sono stato un rompiscatole».


Undici squadre non sono state troppe?
«Hanno rappresentato importanti esperienze di vita: mi hanno fortificato e concesso la possibilità di conoscere allenatori, giocatori, tifosi, città. Sono cresciuto anche grazie a questi spostamenti e alle responsabilità che mi assegnavano i dirigenti».


Delle undici, qual è la squadra del cuore?
«E c’è bisogno di chiederlo?».


Ha vissuto a lungo a Bergamo e Verona, portiere in due stadi dove il Napoli e i napoletani sono sempre insultati: è stata dura?
«Ho vissuto un solo brutto episodio, a una festa in un club: ci fu chi cominciò a cantare Noi non siamo napoletani e io andai via. Dove accadde? Non voglio dirlo, è un episodio che ho cancellato dalla memoria. Dirigenti e compagni si schierarono tutti dalla mia parte, compresero il gesto. A Bergamo e Verona ho vissuto bene, però un calciatore è in una posizione particolare, quasi protetto rispetto a determinate situazioni. Quei cori durante le partite, per me che indossavo la maglia dell’Atalanta o del Verona, erano pugnalate. Ho provato a descrivere Napoli a chi non la conosceva e sono felice che tanti amici bergamaschi e veronesi abbiano ascoltato il mio suggerimento e siano venuti in città, a cogliere la bellezza di un luogo e l’umanità della gente che abita qui».

 

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