Pierluigi Pardo a 360°: il calciatore preferito è Tony Adams, ma il figlio si chiama Diego!

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Intervista de La Gazzetta dello Sport – Romano del quartiere Trieste, figlio di un militare di carriera e di un’insegnante con esperienze all’estero (“Mamma aveva insegnato in scuole francesi a Liegi, in Belgio, e a Tunisi”), Pierluigi Pardo – telecronista di culto, ora per Dazn, in passato per TelePiùStreamSky e Mediaset, in futuro chissà – potrebbe essere oggi l’amministratore delegato di uno colosso dei supermercati. “Non esageriamo. Mi sono laureato in Economia alla Sapienza, con una tesi su: “Il ruolo delle marche commerciali nel processo di sviluppo delle grande distribuzione europea”. Per tradurre: l’Esselunga, la Coop o la Conad, oltre che distributori, sono produttori di generi a marchio proprio, a costo contenuto e di qualità. Eravamo nel 1998-99 e all’epoca il tema era caldo, si discuteva della rarefazione dei cosiddetti negozi di prossimità, le botteghe sotto casa”.

Factory della Comunicazione

“In P&G, tra il 1999 e il 2001, mi avevano assegnato il compito di seguire Infasil (deodoranti, igiene intima, ndr), i farmaci Vicks e i fazzoletti Tempo, che detenevano il 30 per cento del loro mercato, e in questo caso non dovevo fare nulla, soltanto controllare che mantenessero la posizione. Dal lunedì al venerdì stavo in ufficio, il sabato e la domenica telecronache, con TelePiù prima e con Stream poi. Quando Stream mi propose l’assunzione in pianta stabile, papà mi disse: ‘Pensaci bene, sei in una grande azienda, con ottime prospettive di carriera. Che cosa vai a fare in tv…’. Risposi: ‘Ok, papà, ci rifletto, lo prometto’. Avevo già firmato. Addio Procter&Gamble e un po’ mi dispiaceva, perché in P&G avevo tanti amici, persone con cui sono rimasto in contatto”.
Facciamo un passo indietro.
“Da bambino giocavo a basket, ma ero una discreta pippa, e poi a casa, davanti al Subbuteo, inventavo delle telecronache tutte mie. In famiglia conoscevamo un sacco di militari e di medici, però giornalisti zero. Il mio primo approccio con il mestiere, nella primavera del 1992, è stato casuale. Preparavo la maturità con la mia amica Isabella. Il suo fidanzato collaborava con Il Tempo di Roma. Un pomeriggio lo cercavano dalla redazione per coprire un servizio , ma non lo trovavano, Chiamarono Isabella e io mi offrii per sostituirlo. Si trattava di scrivere su un quarto di finale della Coppa Italia di pallanuoto, alla piscina del Foro Italico. Andai e in qualche modo buttai giù l’articolo. È stato il mio debutto nel giornalismo”.
E poi?
“Estate del 1996, sono in Inghilterra per l’Erasmus a Londra, all’università di Greenwich. Ho una collaborazione con l’agenzia di Italpress che mi permette di seguire le partite di Premier e gli altri eventi sportivi a Londra. Tutte le squadre mi concedono l’accredito, tutte tranne il Chelsea, chissà perché. In estate vado a Wimbledon. So che TelePiù sta cercando telecronisti per la pay-tv, nascente in Italia. Così mi avvicino al grande Rino Tommasi e con deferenza gli chiedo se per cortesia può consegnare in redazione a Milano una videocassetta con una mia telecronaca di prova”.
In pratica ha usato Rino Tommasi come corriere postale?
“Ero sicuro che con lui la cassetta sarebbe arrivata a destinazione e non si sarebbe persa nei meandri di qualche ufficio. Lì è cominciata l’attesa. Non avevo il telefonino, avevo lasciato il numero di casa a Roma e chiamavo sempre mamma per sapere se qualcuno mi avesse cercato da TelePiù. Giorno dopo giorno avevo quasi perso le speranze e non domandavo più, finché un mattino, mia madre chiese: ‘Non vuoi più sapere se ha telefonato TelePiù? Perché sì, vogliono parlarti’. E da lì è partito tutto. Primo servizio, la Umbro Cup assieme al grande Massimo Marianella. A seguire, un lungo periodo di gavetta, a gettone, su partite minori. Si parte dal basso, mica dalla finale di Champions”.
Il telecronista di riferimento?
“Sandro Piccinini ha cambiato il linguaggio delle telecronache, lo ha destrutturato. Ci ha traghettato dalla frase lunga, discorsiva, alla Martellini o alla Pizzul, all’immediatezza di espressioni secche: ‘Non va!’; ‘Gran botta!’; ‘Sciabolata!’. Attenzione, non è una critica a chi c’era prima. Bruno Pizzul l’ho conosciuto, gli ho voluto bene, l’ho invitato a Dazn per fargli commentare gli “highlights” a SuperTele. Piccinini ci ha portato altrove, in linea con i tempi che cambiavano”.
C’è chi vede in lei, per certi versi, la prosecuzione di Gian Piero Galeazzi con altri mezzi.
“L’ho conosciuto, è scattata una grande empatia tra noi e non poteva essere diversamente. Gian Piero aveva il dono della leggerezza giusta, non si prendeva troppo sul serio. Una lezione attuale, vedo calciatori stanchi di interviste troppo impostate. Il paragone con Gian Piero mi lusinga tantissimo”.
Quanto tempo dedica alla preparazione di una telecronaca?
“Circa sei ore. Ho un file per ogni squadra e devo aggiornarlo, sia nei dati sia nelle notizie. Le informazioni principali le condenso in un foglio. Durante un Bari-Samp al San Nicola, una tempesta di grandine e vento mi fece volare via la carta e da allora per precauzione fotografo sullo smartphone gli appunti sulla carta. Devi sapere cento cose per dirne dieci, questo è il concetto base”.
Il suo racconto è rock, ai limiti dell’immaginifico, contaminato in senso buono da citazioni di film, di canzoni, di stili architettonici.
“Penso che sia fondamentale assecondare il proprio carattere, che induce a non fare una telecronaca troppo codificata. A me piace seguire l’istinto e credo che si debba uscire dal recinto delle solite discussioni, fuorigioco sì o no, rigore o non rigore, chi arriva e chi parte sul mercato. Per carità, queste cose le ho fatte e le faccio anch’io, ma il calcio è di più, è un coacervo di sentimenti. Uno dei momenti più forti per me è stato Napoli-Fiorentina, la partita dello scudetto di Spalletti. In settimana mi chiama Paolo Sorrentino (il regista de La grande bellezza, ndr), tifoso del Napoli, e mi dice che vorrebbe seguire il match da bordo campo. Gli procuriamo un accredito da fotografo. Lui arriva, si mette la pettorina che spetta ai fotoreporter e assieme al figlio si gode lo spettacolo da vicino. A lui brillavano gli occhi per il Napoli, a me per vederlo così emozionato. Il calcio è un immenso fenomeno pop”.
Scrittore di riferimento?
“Tanti, ma dico Nick Hornby, l’inglese di Febbre a 90” e di Alta fedeltà, due libri su calcio e musica”.
E nella musica?
“Dovrei indicare gli Oasis, li ho appena visti e ascoltati in concerto a Edimburgo, però alla fine scelgo sempre Bruce Springsteen”.
Il calciatore che più l’ha colpita?
“Tony Adams, ex difensore dell’Arsenal, squadra di cui sono simpatizzante. La sua storia la conosciamo, grande stopper con il problema enorme dell’alcolismo. Ci ha scritto un libro in cui si è raccontato. Quando l’ho intervistato, si è commosso fino alle lacrime. Gli ho fatto leggere alcuni passaggi dell’autobiografia, specie le ultime righe: ‘Un alcolizzato resta un alcolizzato, mai abbassare la guardia’. Lì ha pianto, è stato un momento toccante. Ho una passione per i difensori grandi e grossi, muscolari. Forse perché li sento vicini come stazza”.
Eroi spotivi, Adams a parte?
“Milos Teodosic (il serbo ex Virtus Bologna, ndr) ha rinfrescato il mio vecchio amore per il basket. E nel tennis Henri Leconte, il francese: ricordo la sua finale al Roland Garros, persa praticamente senza giocare”.
Come nasce la sua amicizia con Antonio Cassano, con il quale ha scritto due libri?
“Un giorno in aeroporto sento un colpetto da dietro, sulla testa: ‘Ué, Pardo, grande telecronista. Fatti vivo, sentiamoci’. Gli ero simpatico e me lo ha detto subito, a modo suo, senza filtri. Gli voglio bene perché è una persona spontanea, buona e generosa. Quando uscì il primo libro, chiamò di persona tutte le persone di cui aveva parlato per rassicurarle”.
Come si schiera nella disputa tra giochisti e risultatisti?
“Non mi schiero, perché non credo che esista un unico modello vincente. Si può vincere con l’attacco e con la difesa, con la materia e con l’antimateria. Parliamo di un gioco, il calcio, a basso punteggio, dunque votato all’equilibrio. Bisogna aggiornarsi, senza essere dogmatici. Qualche volta vincono gli uni, qualche volta gli altri. Guardiola è un genio perché è sempre in movimento. Al Barcellona diceva che il centravanti era lo spazio. Al City si è preso Haaland, il più forte dei centravanti fisici”.
Le telecronache generano le reazioni dei tifosi, amplificate dai social.
“Se fai Real Madrid-Barcellona, sei libero da certi condizionamenti. Se racconti Milan-Inter, devi mettere in conto che il tifoso valuterà il tuo volume di voce dopo un gol o soppeserà come giudichi un banale contrasto e in base a quello stabilirà inequivocabilmente che sei milanista o interista. O addirittura penserà che tu abbia citato una certa statistica per ‘gufare’ il Milan o l’Inter. Sono dinamiche che comprendo, il tifoso è così”.
L’incubo di un telecronista?
“Per me sono due. Sbagliare il nome del marcatore e a me è capitato durante una partita del Chievo, quando scambiai Bierhoff con Cossato o viceversa, non ricordo. E prendere una topica regolamentare e mi è successo quando dissi che c’era fuorigioco, anche se il portiere era avanzato oltre l’ultimo difensore e dunque non c’era offside. La telecronaca è fatica fisica, si esce spossati, si ha quasi l’illusione di giocare e si patiscono le condizioni ambientali. Una volta in Ucraina, per una partita di Champions dello Shakhtar, il freddo era tale che finii congelato, battevo i denti al microfono. Detto questo, parafrasando qualcuno, fare telecronache è sempre meglio che lavorare”.
Lei è famoso per le sue imitazioni.
“A Old Trafford imitai Alex Ferguson in sua presenza, lui si divertì e da quel giorno mi concesse sempre l’intervista prepartita. Da simpatizzante dell’Arsenal non amavo troppo il Manchester United, ma dopo aver conosciuto Ferguson ho cambiato idea. Gli piaceva anche l’imitazione del povero Sven Goran Eriksson”.
Ha un figlio di tre anni: lo ha chiamato Diego per Maradona?
“No, per mio nonno. Diego è un nome di famiglia, ma è chiaro che Maradona, con la sua immensità, un po’ c’entra. E mi piace come suona tutto insieme: Diego Pardo. Potrebbero essere le generalità di un calciatore sudamericano, di un ballerino di tango. Diego potrà essere chiunque, quello che vorrà”.
Sua moglie è un architetto.
“Lorena Baroncelli, oggi direttore del dipartimento di architettura del Maxxi, il museo nazionale delle arti del ventunesimo secolo a Roma. Ha lavorato alla Triennale di Milano, è stata assessore alla rigenerazione urbana del Comune di Mantova. Il nostro primo viaggio insieme è stato a Miami, negli Usa, per un Capodanno. Avevo preso i biglietti per una partita di Nba, lei mi disse: ‘Prima dobbiamo vedere un parcheggio’”.
Un parcheggio?
“Sì, il parcheggio di un centro commerciale a Miami Beach, Lincoln Road: un esempio magnifico di architettura contemporanea, firmato da due architetti svizzeri tifosi del Basilea, Herzog e De Meuron. Bello, ma io pensavo ai Sixers (squadra di basket Nba, ndr)”.
È vero che è stato il telecronista “privato” di Andrea Bocelli, il grande cantante, non vedente?
“Sì, è successo per Italia-Svizzera dell’Europeo 2021, all’Olimpico. Andrea mi chiama a fine primo tempo: ‘Vieni, siedi accanto a me, mi racconti la partita’. E così è andata, gli ho fatto una telecronaca personalizzata. Andrea è un amico, una star mondiale che è rimasta una persona semplicissima. A casa sua abbiamo suonato e cantato insieme”.
Quali canzoni?
Eskimo di Guccini e Rimmel di de Gregori”.
Il suo sogno?
“La telecronaca della finale di un Mondiale, con l’Italia che vince”.
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