AdL a 360 gradi: «A 34 ANNI DECISI: ADESSO SI FA COME DICO IO. È ANDATA BENE»

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Ha cominciato la carriera guardando il cinema dal basso,
«papà e zio mi presero come aiuto segretario di produzione,
sono stato ammesso alla stanza degli sceneggiatori dopo
anni» racconta il produttore cinematografico e presidente
del Napoli. Dall’acquisizione della squadra alla conferma
di Conte, dalle lezioni di Age e Scarpelli fino agli aneddoti
su Tognazzi. Conversazione a tutto campo

Factory della Comunicazione

d i   P A O L O C O N D Ò milan udinese

La primavera dei tifosi del Napoli è vissuta su due emozioni intrecciate. La prima, eccitante e solare, era l’inseguimento allo scudetto. La seconda, sussurrata nell’ombra, era il timore di perdere Antonio Conte a fine stagione. Aurelio De Laurentiis assicura di essersi goduto il trionfo senza crucci o retropensieri, e quindi la prima domanda riguarda la sua sicurezza di trattenere il tecnico. Ma lui la corregge.
«Per vedere il quadro completo occorre partire da più lontano, dalla scelta di prendere un allenatore tosto come Conte. Molti anni fa lo incontrai alle Maldive. Era in vacanza assieme a Elisabetta, sua moglie, e a Vittoria, la loro figlia. Passammo alcune giornate a nuotare e a discutere di calcio. Mi spiegò il suo modo di lavorare e io rimasi affascinato dal rigore che lo animava. Uno stakanovista sul lavoro, come me. È evidente che siamo entrambi innamorati di ciò che facciamo, e questo per me è un aspetto fondamentale. Come la cura dei dettagli. Quando la piazza l’anno scorso mi chiese giustamente l’esonero di Garcia, era novembre, io invitai Antonio a colazione a casa mia e gli offrii di subentrare. Ma lui, con onestà intellettuale e il rigore di cui le dicevo, rispose che era suo desiderio venire a Napoli, ma a giugno, quando assieme avremmo ricostruito la squadra. E così è stato».

Cosa è successo allora dopo la vittoria dello scudetto?
«La partita col Cagliari che ha decretato il titolo è di venerdì 23. Sabato e domenica siamo andati a Ischia con Conte e la sua famiglia a festeggiare il mio 76esimo compleanno. Lunedì 26 c’è stata la meravigliosa parata sul lungomare che in un’ora e mezza ha raccolto oltre 70 milioni di spettatori in tutto il mondo su Rai Italia, il bouquet di canali internazionali. La sera c’è stata la festa di tutto il Napoli e il giorno dopo siamo andati dal Papa per la prima udienza ufficiale del suo pontificato. Subito dopo ci siamo chiusi in una stanza io, lui, Chiavelli e Manna e abbiamo iniziato a gettare le basi per la nuova stagione. Senza bisogno di dire nient’altro».
Quest’intervista con Aurelio De Laurentiis è il frutto di due lunghe conversazioni a Dimaro, dove il Napoli era in ritiro nella seconda metà di luglio, inframezzate dalla cena con i rappresentanti del Trentino – padroni di casa – nella quale mi sono trovato accanto ad Antonio Conte. Le molte chiacchiere di quella sera erano chiaramente off-record, ma è giusto fare uno strappo per confermare l’empatia con l’ambiente napoletano raccontata da lui con una certa enfasi, il giorno della parata ma anche prima delle grandi feste. Conte continua a ritenere lo scudetto di maggio il punto più alto, perché più difficile, della sua traiettoria professionale, e ha deciso
di provare qui un nuovo assalto a quell’Europa che gli ha sempre resistito. Anche perché gli piacciono i giocatori che sono giunti in estate, a partire ovviamente da Kevin De Bruyne ma arrivando a un Lorenzo Lucca – uno spoiler ci
sta – che è convinto di sviluppare in un centravanti di livello internazionale. Ma torniamo a De Laurentiis.
La scorsa stagione con Conte ci sono state anche frizioni. Per esempio a gennaio, quando ha venduto Kvaratskhelia senza sostituirlo.
«Nessuna frizione. Dovevo farlo. Nessuno poteva sostituire Kvara alla pari, ma ci abbiamo provato: il Psv per esempio non ci ha dato Noa Lang, per fortuna in estate si è convinto. Del resto se quello di gennaio viene chiamato mercato di riparazione, uno del livello di Kvara a metà stagione non te lo vendono. Detto questo, ero consapevole che Conte, concentrato sulla lotta per arrivare più in alto possibile, avrebbe faticato ad accettare l’operazione. Diciamo che ho scommesso sulla sua capacità di vincere ugualmente, ed è stata una buona puntata».
Perché ha dovuto vendere Kvara a gennaio?
«Perché il suo procuratore minacciava di ricorrere all’articolo 17 del regolamento Fifa. La storia va spiegata. Dopo
la prima, formidabile stagione del georgiano ci siamo preoccupati subito di negoziare un rinnovo contrattuale, migliorando il suo stipendio e arrivando a offrirgli una cifra molto importante, perché era ovvio che il compenso limitato avrebbe attirato mezzo mondo pronto a fargli ponti d’oro. Ma il suo procuratore, Mamuka Jugeli, aveva altri progetti per sé e per il calciatore. Voleva strappare a un altro club un’altissima commissione per lui, oltre a uno stipendio a doppia cifra per Kvara. Alla fine del secondo anno contrattuale c’è stato l’Europeo in Germania. Manna, Chiavelli ed io siamo volati a Düsseldorf per risolvere la questione, ma Mamuka ha continuato a prendere tempo sostenendo che Giuntoli gli avesse promesso dei soldi che non erano stati corrisposti. Bugia, non è stato difficile appurarlo. Avrei dovuto venderlo allora, il Psg aveva offerto più di 200 milioni per il pacchetto Kvara-Osimhen. Ma avevo promesso a Conte di trattenerlo e non me la sono sentita».
Come avrebbe utilizzato tutti quei soldi? 

«L’idea era quella di prendere Gyokeres».
Che cosa dice l’articolo 17 per rendere così pressante la cessione?
«È un articolo che permette a un giocatore di uscire dal suo contratto dopo tre anni pagando un indennizzo misurato sul suo compenso e sui soldi spesi per il cartellino. Essendo due cifre basse, l’indennizzo sarebbe stato irrisorio rispetto al valore del giocatore. In pratica, quest’estate l’avremmo perso quasi gratis».
E con Osimhen com’è andata?
«L’abbiamo venduto al Galatasaray per 75 milioni più bonus. E con reciproca soddisfazione».
Gli introiti derivanti dalla cessione dei tre grandi protagonisti dello scudetto 2023 – non
dimentichiamo il difensore coreano Kim, andato via dopo un anno – sono alla base del mercato
stellare di quest’estate. Non solo una superstar come Kevin De Bruyne, logicamente il primo nome sul cartellone, ma un’intera batteria di giocatori forti per dotare Conte di due squadre. In giugno ha fatto scalpore un’inchiesta della
Gazzetta sui denari immessi dalle varie proprietà nei grandi club italiani: non che fossero dati inediti, ma vederli tutti assieme ha lasciato stupefatti. Da quando è sbarcata in Italia (2020) la famiglia Friedkin ha speso per la Roma 938
milioni, top assoluto. Dal 2001, anno della quotazione in Borsa, la Exor degli Agnelli/Elkann è intervenuta nella Juventus per 730 milioni fra ricapitalizzazioni e bond. Aurelio De Laurentiis ha rilevato il club dal fallimento nel 2004, e i 16 milioni tirati fuori dalla tasca della Filmauro per coprire le perdite della serie C sono tutto ciò che ha toccato del patrimonio del suo Gruppo.
«Non erano 16, erano 32» corregge lui quando gli faccio queste cifre, ma l’amministratore delegato del club, Andrea Chiavelli, è lì per fare da Cassazione. «I 32 – abbondanti – erano il prezzo per l’acquisto del ramo di azienda, somma che venne garantita personalmente dal presidente e poi successivamente restituita. I 16 erano, come detto, versamenti a ripianamento delle perdite dei campionati di Serie C. E quindi di patrimonio del Gruppo è corretto dire 16».
«Un giorno dovrò scrivere il libro di come avvenne quell’acquisizione» dice De Laurentiis «ma per sommi capi gliela riassumo perché fu davvero un’avventura. Avevo già provato a prendere il Napoli, nel 1999, convocando i media e mostrando loro un assegno circolare da 120 miliardi di lire spezzato in due parti: la prima
era a disposizione di Ferlaino, per la seconda volevo effettuare una due diligence. La sua risposta fu una causa per aver creato, secondo lui, una distrazione della campagna abbonamenti, causa che peraltro vinsi facilmente. Ricordo che Gazzoni mi offrì il Bologna per 50 miliardi, ma risposi che io tifavo per il Napoli e quindi mi
interessava solo il Napoli».
 Il racconto prosegue con il corteggiamento di Pierpaolo Marino. «All’epoca mica sapevo che era stato il direttore generale del Napoli ai tempi di Maradona. Io ero completamente digiuno di calcio. Sì, da bambino con papà tifavamo Napoli, ma non avevo seguito tutte le sue avventure. E disavventure. Avevo chiesto in giro quali fossero i due club che overperformavano rispetto al loro bacino di mercato: mi dissero l’Udinese e il Chievo, cercai di ingaggiare i loro dirigenti, dovevano essere bravi. Sartori del Chievo mi disse che era impegnato, ma secondo
me non sarebbe sceso in serie C neanche dipinto. Marino invece ci raggiunse a Gstaad, dove stavamo girando Christmas in Love. Andammo a cena e parlammo fino alle 5 del mattino. Mi pare ci fosse anche Danny De Vito, sì, che aveva una parte nel film. Restava da ottenere il sì del giudice fallimentare, mi presentai all’udienza con una squadra di avvocati che parevano gli Avengers, e il giudice col suo eloquio lentissimo raccontò che la figlia s’era appena laureata con una tesi sulla gestione dei club calcistici, e siccome lui l’aveva letta sapeva quanto fosse difficile tenere i conti in ordine. Mezz’ora di questa menata, non sapevamo più dove guardare, ma alla fine mi diede il Napoli».
Sono passati 21 anni da quei giorni. Se gli Anni 10 hanno visto l’incontestabile primato della Juventus, il Napoli e l’Inter si contendono il ruolo di squadra guida degli Anni 20, e voi con due scudetti nelle ultime tre stagioni – ma soprattutto con una salute economica che nessun altro possiede a questi livelli – siete avanti a tutti. Lei è stato spesso un dirigente di opposizione polemico ed estremo. Ora che in un certo senso è al governo, cosa cambia?
«Lei dice polemico, io rispondo visionario. Mi permetta di ricordare la mia gavetta nel mondo del cinema, perché
molti pensano che il cognome che porto mi abbia spalancato subito tutte le porte. Papà e zio mi fecero iniziare come aiuto segretario di produzione, 32mila lire alla settimana, il cinema visto dal basso. Poi sono passato dall’ufficio legale, e soltanto dopo anni sono stato ammesso alla stanza degli sceneggiatori. Dove stavo zitto, e imparavo da Age e Scarpelli. E dal grande Sergio Amidei. Andavamo al cinema, lui aveva il vizio di parlare ad alta voce, io mi preoccupavo, “guarda che adesso ci menano”. Che tempi. Alla fine di questo percorso – avrò avuto 34 anni – mi sentii abbastanza maturo per pronunciare la frase fatidica: adesso si fa come dico io. Ed è andata piuttosto bene».
Nel calcio non si può. Non ne è l’unico proprietario.
«Beh, io direi invece che si può, visti i risultati che ho ottenuto. Il confronto è con gli altri proprietari, ma se mi permette il gioco di parole, vorrei appunto confrontarmi con loro. Invece quando vado alle assemblee di Lega
trovo amministratori, direttori, segretari, ma proprietari pochi. Il mio non è snobismo: senza i proprietari non si
cambierà mai niente, e infatti la Lega Calcio non funziona, è un organismo imbelle. I dirigenti dei club guadagnano uno, due, tre milioni all’anno, chi glielo fa fare di proporre cambiamenti allo status quo? Sono i proprietari a doversi muovere, prendendosi il giusto rischio d’impresa».
La premiazione della squadra del Napoli e del suo presidente per la vittoria dello scudetto, il quarto della sua storia. Il terzo era arrivato nella stagione 2022-2023, con Luciano Spalletti, a distanza di 33 anni dal precedente. Il primo
scudetto era stato invece vinto nella stagione 1986-87, con Maradona miglior marcatore (10 reti) e Ottavio Bianchi in
panchina

Lei vede i fondi come il fumo negli occhi, vero?
«Quando c’è stato da bloccare l’ingresso dei fondi nella serie A, ci siamo trovati a combattere fianco a fianco Andrea Agnelli e io, e abbiamo vinto. Da imprenditori. Un vero imprenditore non ha bisogno dei fondi».
In molti invece pensano che i fondi avrebbero razionalizzato la gestione della serie A.
«Il compito dei fondi è garantire ai loro investitori un rendimento il più possibile valido e sicuro, ma non sulla pelle
delle società, senza possedere la ricetta per sviluppare il fatturato totale del calcio. Il sistema è malato in tutta Europa, per curare i tanti debiti sono necessarie riforme rivoluzionarie e rapide. Si giocano sempre più partite, che necessitano di sempre più giocatori, che portano a sempre maggiori spese. Io auspico invece una serie A che dimagrisca a 16 squadre, come nel 1986, e che eviti che i calciatori stessi, patrimonio delle società, si usurino bruciando il loro valore. Un torneo a 16 squadre eviterebbe anche quei match con poche migliaia di spettatori in tv che indeboliscono la credibilità commerciale del nostro calcio. Molti sostengono che così incasseremmo di meno, ma non è vero, perché aumenterebbe il valore delle altre partite. E poi è maturo il tempo perché Giorgia Meloni tolga il tetto pubblicitario alla Rai per finanziare con gli introiti della pubblicità tutta la serie A che andrebbe in chiaro, dividendo il campionato fra Rai e Mediaset. Gli italiani sarebbero felicissimi di poter vedere tutte le partite
gratuitamente e lo share andrebbe alle stelle».
Per onestà intellettuale devo precisare il mio conflitto d’interessi: oltre che per il Corriere, lavoro per Sky Sport. Detto questo, le ricordo che esiste un precedente di campionato in chiaro, in Argentina, con il governo di Cristina Kirchner. Un classico esempio di panem et circenses che andò in onda dal 2009 al 2017 e naufragò tra accuse di propaganda politica, corruzione e distrazione di fondi.
«Beh, l’Italia non è l’Argentina, che tutti conosciamo come un Paese in cui “fare economia” è impossibile. In ogni caso bisogna fare qualcosa per affrontare la concorrenza delle grandi competizioni internazionali: lei sa bene che i denari destinati dalle televisioni e dalle piattaforme ai tornei organizzati da Fifa e Uefa sottraggono risorse ai campionati nazionali. Quindi le soluzioni sono due: o andare in chiaro, dando ai club i ricavi della pubblicità, o puntare sui tifosi attraverso la pay per view, in modo tale che oltre a vendere i biglietti per lo stadio reale, si possano vendere anche quelli per lo stadio virtuale. Ma non mi faccio troppe illusioni sulla possibilità che i politici obblighino Rai e Mediaset a teletrasmettere le partite di serie A. Ignorano un dato importante: il calcio potrebbe portare nelle urne il voto di 30 milioni di tifosi. Alla fine, superficialmente, per i politici i proprietari dei club calcistici restano i ricchi scemi di cui parlava Giulio Onesti».

Mentre il Comune pensa alla ristrutturazione del “Maradona”, lei ha presentato il progetto di uno stadio nuovo. La conferenza dei servizi è in calendario il 4 settembre.
«Pronto in quattro anni, in tempo per gli Europei quindi, 65-70 mila posti, parcheggi per 9000 auto, zona Est della
città. Però la legge sugli stadi dev’essere integrata da un tavolo in cui siano presenti tutti gli attori, e parlo delle soprintendenze che ne trovano sempre una, e della Corte dei Conti. Non ci si alza da quel tavolo finché non si è tutti d’accordo, ma poi si procede. Con i vari commissari non credo che si arrivi a nulla di concreto in brevissimo tempo».
Abbiamo nominato Maradona. Quanto le sarebbe piaciuto averlo fra i suoi giocatori?
«Ma io l’ho avuto. Ha recitato in Tifosi, nel 1999. All’epoca non lo conoscevo, chiesi il contatto a Gianni Minà, lo chiamai a Buenos Aires e lui a bruciapelo “mi dai 500 milioni per tre giorni di lavoro?”. Deglutii, dissi che andava bene, e lui “allora la prendo in considerazione, ti faccio sapere”. Due giorni dopo mi chiama, è a Fiumicino con la moglie, io prendo per loro la suite all’ultimo piano dell’hotel d’Inghilterra, panoramica pazzesca sui tetti di Roma. Stiamo lì tutta la notte a chiacchierare, del film e della vita, a un certo punto Claudia gli dice “ma ti rendi conto di quanti soldi guadagneresti se nascessi oggi?”.

Gli ingaggi dei calciatori, in effetti, si erano decuplicati rispetto a quando giocava lui. La risposta di Diego fu stupenda, me la ricordo ancora. “Se nascessi oggi, non avremmo le due figlie meravigliose che ci riempiono l’esistenza”. La sua grandezza interiore era pari alla capacità calcistica».
Qual è in tutti questi anni il campione al quale si sente più legato?
«Hamsik è stato la stella polare del Napoli. Un giorno è venuto a dirmi che voleva cambiare squadra, voleva la Cina. Marek però me lo chiese… non so come spiegarlo… da napoletano, ecco. Dovrebbe vedere la scuola calcio che ha aperto in Slovacchia. Ha portato Napoli a casa sua. Dei miei giocatori è quello al quale sono rimasto più affezionato».
De Laurentiis, che presidente è oggi rispetto a 21 anni fa?
«Passata la boa dei vent’anni di presidenza mi sono convinto di una cosa: le grandi imprese sono possibili se i protagonisti, e parlo di allenatori e giocatori ma anche di me stesso, sviluppano un’empatia profonda con la città. Ecco, misuriamolo su di me. Io ormai mi sento scomodo a Roma, mi sento comodo a Los Angeles, mi sento comodissimo a Napoli. New York e Parigi mi dicono poco, invece amo stare a Londra. Io penso che l’anima sia immortale, da cui il discorso dei déjà-vu e del sentirsi a casa anche in luoghi dove non si è nati».
Sbucano molti altri De Laurentiis nella lunga conversazione, dal padre orgoglioso del contributo che i figli stanno dando all’impresa di famiglia al produttore che è un tesoro di aneddoti («la volta che Tognazzi lesse la sceneggiatura del Petomane e mi diffidò a dare il ruolo a un altro, che poteva essere Mastroianni, perché lo voleva assolutamente lui») e di stratagemmi («non avendo ricevuto l’autorizzazione a girare un film a Parigi in Place de Vosges, ingaggiai cento comparse per parcheggiare lì le loro auto due giorni prima, in modo da liberare poi la piazza per le carrozze d’epoca al momento di dire ciak»), dal buongustaio che tiene una conferenza sulle acciughe del Cantabrico («il calibro 000 è quello più carnoso») al discendente di uno chef importante («tutti conoscono mio padre e mio zio, ma nonno Enrico, il papà di mamma, è stato il cuoco dell’imperatore del Giappone»). Due di queste identità, però, non si contengono. Una è quella che alla decima domanda sulla permanenza di Conte sbotta «Mario Monicelli ha lavorato con me per anni, Carlo Verdone sta con me in esclusiva dal 2002! Li so trattenere i migliori, altroché».
E poi l’ultima, siamo già in piedi e ci si sta salutando. «Lo sa qual è la mia vera specialità? Quella dove sono inarrivabile? Il pernacchio. Un vero artista. Da bambino vidi L’oro di Napoli, rimasi affascinato dal famoso pernacchio di Eduardo, e mi esercitai fino a replicarlo. Il migliore, quello perfetto, mi riuscì a 15 anni in classe, al prestigioso Istituto De Merode di piazza di Spagna».
La cacciarono? «Non ne ebbero il tempo. Arrivò mio padre, mi spinse fuori lui a sberle. Da quel giorno, scuola pubblica. E non ho rimpianti».

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