Napoli-Juventus e i sei cori ‘ngrati. Carratelli sul Pipita: «Non è un tradimento, ma uno sfregio»
Il primo fu Altafini a lasciare l’azzurro per indossare la maglia bianconera Poi è stata la volta di Ferrara e Lippi i più recenti Higuain, Sarri e Giuntoli
L’immagine dell’ingratitudine calcistica è a Napoli associata in preferenza alla maglia zebrata della Juventus. Nella «squadra che è meglio
non nominare perché forse ci porta anche sfiga», come scrisse lo scrittore Giuseppe Montesano 9 anni fa, si sono consumati i principali tradimenti azzurri. La serie dei core ‘ngrati venne inaugurata il 6 aprile 1975 da Josè Altafini. La squadra allenata da Vinicio si giocava il vertice della classifica a Torino e Altafini, trasmigrato alla Juve con lista gratuita a 34 anni, sceso in campo nel finale di gara, mise la zampata vincente in una mischia maledetta. Addio sogni di gloria e, fuori lo stadio allora San Paolo, comparve la scritta a caratteri cubitali «Core ‘ngrato». Josè poi si difese, prendendo a scusante l’età: «Il Napoli mi mollò perché ero vecchio, ma ero come il vino e alla Juve feci buon brodo». E aggiunse: «E Zoff, allora? Andò alla Juve nel mio stesso anno». Ma il portiere campione del mondo portò nelle casse del Napoli 330 milioni e andò via, anche se con dispiacere della moglie, senza strascichi polemici. Neanche tra i tifosi. In più, Zoff non era stato determinante come Altafini a smorzare i sogni di scudetto azzurri, allora ancora irrealizzati.
Quei sogni li aveva vissuti da protagonista Ciro Ferrara, napoletano di via Manzoni, in squadra con Maradona e vincitore di tutto con il grande Diego. A differenza di Maradona, che aveva detto no ad un assegno in bianco di Agnelli, Ciro per scelta indossò la maglia juventina. Il Napoli aveva ancora una volta bisogno di fare cassa, ricavò 9,4 miliardi da quella cessione. E Ferrara spiegò a caldo: «Il mio cuore resterà a Napoli, anche se la mia famiglia viene con me. Ho scelto la Juve perché rispetto alle altre mi ispirava di più, mi dava più sicurezza». Più sincero di così. A Torino, poi, il meridionale Ferrara si sarebbe ben integrato, proprio come Antonio Conte.
LO SFREGIO
«Non è un tradimento, ma uno sfregio», scrisse il pungente Mimmo Carratelli della scelta di Higuain di trasferirsi alla Juve. Un
passaggio mai digerito dai tifosi. Un core ‘ngrato super, tanto da metterne all’indice il cognome trasformato da allora in «innominabile». Eppure, con 146 presenze e 91 gol, Higuain era stato una colonna del Napoli, prima di Benitez e poi di Sarri. Scelse la Juve, che pagò l’intera clausola rescissoria al presidente De Laurentiis. Quando il 2 aprile 2017 tornò al San Paolo, segnando pure una rete decisiva, fu sommerso dai fischi. Fuori dal campo, due anni fa, suscitò ironia la professata, e fino allora mai dichiarata, fede juventina del direttore sportivo Cristiano Giuntoli, fresco di scudetto azzurro e passato a Torino. Core ‘ngrato, ancora una volta trasferitosi con armi e bagagli in bianconero, anche Marcello Lippi? Aveva guidato un Napoli qualificato in Coppa Uefa nel dopo Maradona. Passò alla Juve, dove portò Ciro Ferrara. Poi sarebbe diventato l’ultimo allenatore della Nazionale a vincere un campionato del mondo. Corsi e ricorsi, con Luciano Spalletti, artefice del terzo scudetto, polso in eterno decorato da un tatuaggio su quell’impresa, domani a Napoli alla guida della Juve. In Tv ha fatto capire che, pur
aspettandosi dei fischi, il suo amore per la città non si cancella. Un amore di cui sapeva qualcosa Eraldo Monzeglio, l’allenatore con più anni in panchina nella storia del Napoli. Fu frattura con il presidente Achille Lauro, andò via, ma quando tornò alla guida della Sampdoria rimase all’hotel Parker, affidando la squadra al suo vice Renato Gei. Troppi ricordi, troppe emozioni vissute sul campo, allora al Vomero. Certo, il Napoli non può essere, come tutte le squadre, un «posto fisso». Il calcio-impresa da fatturati e merchandising non ha più spazio per le bandiere dei tempi andati. Eppure, all’opposto e in contrasto ai core ‘ngrati, oltre al grande Diego, piace ricordare Totonno Juliano, «il capitano». Una vita solo in azzurro dal 1956 al 1978. Ultimo anno al Bologna, prima di chiudere. Al San Paolo, il 22 aprile 1979, lo accolsero con un’ovazione e applausi. L’allenatore del Bologna gli concesse per l’occasione la fascia di capitano. Gli diedero una medaglia. «Ho provato un’emozione enorme» ammise. A lui la maglia azzurra aveva riempito la vita. Era una «bandiera», merce rara nel calcio televisivo.
Fonte: Il Mattino
