Avv. Grassani al CdS: “Rapporto consolidato con il Napoli. Con Lotito ruolo più conflittuale”

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L’avvocato Mattia Grassani, esperto di diritto sportivo, ha parlato in un’intervista al Corriere dello Sport.

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“È il più noto avvocato del calcio, impegnato da anni nella tutela del diritto sportivo La svolta con il caso Ferrigno-Bertolotti Ha a che fare con tutti i presidenti delle tre serie professionistiche. Anche se Allegri gli attribuì «la cravatta azzurro Napoli» Mattia Grassani.
«Un avvocato è stato capace di spiazzare Fifa e Uefa» «Mio padre, civilista, era contrario alla scelta».
Partiamo da un aspetto curioso: dalla lettura del suo curriculum si scopre che lei ha avuto anche esperienze da arbitro. Cioè, proprio da giacca nera (almeno a quei tempi) e fischietto in bocca. Da dove è partita questa esperienza?
«Quando avevo 16 anni ho visto un manifesto nella mia città, a Bologna, che invitava giovani a frequentare il corso arbitri. E dato che come calciatore non ero proponibile, provai l’esperienza di stare in campo con un’altra veste. Feci il corso e dieci anni di attività».
Scalò le categorie?
«Fino alla Serie D. Poi nel 1992 mi dissero che avevo raggiunto il mio massimo. Il presidente della mia sezione arbitri di Bologna, Roberto Armienti – è morto da poco, gli hanno intitolato la sezione AIA di Bologna il 4 settembre 2024 – mi disse che forse era meglio che puntassi sulla carriera di avvocato e non su quella di arbitro, perché con la D avevo raggiunto il massimo livello possibile per le mie capacità. Seguii il consiglio e grazie a Vittorio Mormando, che all’epoca era vicepresidente della Lega di C, con Giancarlo Abete presidente e Mario Macalli altro vicepresidente, venni cooptato nel Collegio Arbitrale della Lega di C. Era il ’93».
Al cambiamento di percorso ci stava arrivando da solo?
«L’arbitraggio ti entra dentro ed è la tua seconda pelle e dopo trent’anni mi sento ancora un po’ arbitro. Per cui, all’epoca fu una delusione perché allora si viveva nel mito di Agnolin, Casarin, Lo Bello. E quindi ci vuole un po’ per smaltire la delusione. Ma grazie all’inserimento nel Collegio Arbitrale della Lega di C – in fondo, rimanevo arbitro, anche se giuridico anziché di campo – mi trovai in un’altra veste da giudice, nelle controversie tra le società e i loro tesserati, come rappresentante delle società. E fu un passaggio assolutamente determinante».
Come calciatore era proprio così scarso?
«Un calciatore da cortile. Potevo essere un centromediano metodista, come si diceva una volta, di rottura, che rompeva le scatole in campo a compagni e avversari, ma piedi più che a banana».
Un metodista in meno, un giurista in più.
«La vocazione è sempre stata quella di cercare di sviluppare professionalmente una passione, quella per lo sport a 360 gradi, non solo calcio. A questo si è aggiunta la mia convinzione, maturata già alla fine degli anni Ottanta – mi sono laureato nell’88 – che l’avvocatura tradizionale non faceva per me. Allora il Diritto Sportivo non esisteva, però avendo io comunque una grandissima passione per lo sport, quello che mi era ben chiaro già dai tempi dell’università, era che, se avessi fatto l’avvocato, non avrei esercitato nel civile, o nel penale, o nell’amministrativo, comunque e non amministrativo, avrei cercato con tutte le mie forze di coniugare questa mia passione con l’attività lavorativa. Già al liceo facevo, per conto delle varie sezioni, i primi ricorsi quando c’era una gara di atletica leggera, incontri di tennis e così anche al CUSP. Dunque, quando non ero nemmeno laureato già mi trovavo ad arrangiarmi con codici molto embrionali e ancora molto generali, che governavano quel mondo».
Per esempio?
«Molto semplice: quando vi erano le gare, le com petizioni di istituto di atletica leggera, per esempio, c’erano limiti alle partecipazioni per coloro che erano tesserati per la FIDAL, o avevano una classifica, o avevano una certa età e quando vi erano queste competizioni, capitava che qualcuno gareggiasse in maniera irregolare, cioè o essendo troppo forte, troppo quotato, o non avendo titolo perché non aveva i certificati di idoneità, eccetera. Quando il risultato di una competizione era sub iudice, allora lo sconfitto che faceva parte della mia sezione di scuola o di istituto veniva da me. Oppure, nelle competizioni calcistiche, nelle gare del CUSP bolognese, quando si verificavano risse in campo o guardalinee che poi fungevano da giocatori. Oppure, nel tennis, quando vi erano competizioni a livello di Giochi della Gioventù o istituto e le partecipazioni erano limitate ai non classificati, non vi erano computer, database o modi per controllare, tutto si basava sull’autocertificazione, però poi si scopriva che magari quel torneo l’aveva vinto uno che in realtà era classificato in un’altra regione. O aveva giocato sotto falso nome e a quel punto bisognava fare ricorso» .
Scusi, ma che età aveva quando ha fatto il primo di questi ricorsi?
«Diciamo 16-17 anni».
E gli adulti delle organizzazioni sportive scolastiche che si vedevano sbucare questo giovane rompiscatole col vizietto del ricorso, come la prendevano?
«Intanto c’è da dire che mio padre faceva l’avvocato e si occupava di diritto civile. Qualche indicazione, qualche dritta me la dava. Avevo questo tipo di protezione perché comunque facevo già l’arbitro, ero arbitro in campo».
Accennava alla figura di suo padre, avvocato Goffredo Grassani. Lui come ha accolto questa sua vocazione per un campo del diritto che, in quel momento, non esisteva?
«Contrarissimo. Era classe 1924, oggi avrebbe 101 anni. Lui era un civilista puro e aveva l’ambizione che io seguissi le orme paterne. E, quando io riportavo questi casi, o anche i primi articoli che scrivevo, mi ricordo sul Sole 24 Ore Sport, o quando facevo i primi interventi in qualche convegno multidisciplinare, senza ancora essermi laureato, lui era stralunato, fuori dalla grazia di Dio. Preferiva che seguissi convegni o studi nella direzione canonica. Diceva che il diritto sportivo non sarebbe mai decollato ed era una disciplina di serie B, non considerata, che non aveva una dignità pari al diritto fallimentare, al diritto societario, al diritto di famiglia, a tutte le varie branche. Ma fu un’opposizione dialettica, nel senso che lui prese la mia strada».
Ma c’è stato un momento in cui si è convinto che alla fine lei aveva fatto una scelta giusta?
«Purtroppo è venuto a mancare troppo presto – nel 2000 – per vedere poi l’evoluzione, sia del diritto sportivo sia mia, e quindi, diciamo, ha accettato la mia scelta».
Qual è stato il momento in cui ha avuto la sensazione che si stava affermando come giurista dello sport?
«Lo capisco nell’88, quando mi laureo e quando Mario Macalli, che era diventato presidente della serie C mi dice: “Mattia, tu sei sprecato come arbitro al Collegio Arbitrale. Devi fare battitore libero, cioè ti devi proporre non più come giudice nei vari collegi arbitrali che risolvono le controversie delle 90 società di serie C, e lo devi fare come professionista”. Io ci pensai molto. Mandai una lettera a tutte le società in cui comunicavo la mia fuoriuscita dai collegi arbitrali e mi mettevo a disposizione come libero professionista, per redigere i future ricorsi. Tenga conto che quello era un periodo in cui i ric orsi li facevano i segretari di società, i vicesegretari, i diesse. E poi a discutere i ricorsi non erano avvocati ma soprattutto dirigenti di società. Ricevetti lettere di ringraziamento da una sessantina di società».
Lei nel frattempo è diventato un punto di riferimento in materia di diritto sportivo. Qual è stato il caso che le ha fatto compiere il salto di qualità?
«Non ho nessun dubbio: il caso che ha riguardato Massimiliano Ferrigno e Francesco Bertolotti, 19 novembre 2000, dopo la partita Como-Modena di Serie C1. Forse il più grave caso di cronaca giudiziaria-sportiva che lo sport abbia mai avuto. A quell’epoca, fra le società che si avvalevano della mia consulenza professionale c’era il Modena. La sera stessa il presidente del Modena, Doriano Tosi, mi chiese la disponibilità a rappresentare la società e il calciatore. Si trattava di un caso gravissimo, che rappresentava un punto d’intersezione fra diritto sportivo, diritto penale e diritto civile. Il Modena, che era in piena corsa per la Serie B, si vide privare per sempre del suo capitano. E Bertolotti dovette chiudere la carriera sportiva».
Tra poco più di un mese ricorrerà il trentennale della Bosman. Un atto giuridico che ha rivoluzionato lo sport professionistico. Molto si è detto e molto si è equivocato su questo tema.
«All’epoca nessuno credeva che colossi come FIFA e UEFA potessero essere sconfitti da un avvocato, di nome Jean-Louis Dupont. Le federazioni erano unite nella difesa del vincolo post-contrattuale. Un istituto che, oggi possiamo dirlo, era da servitù della gleba. In quale altro campo, un lavoratore deve garantire un indennizzo al datore di lavoro, per di più a contratto scaduto, per cercarsi un altro datore di lavoro? Ovviamente, per le società calcistiche vi sono state delle conseguenze pesanti. I calciatori erano poste attive a bilancio, e d’improvviso questo asset veniva messo a repentaglio».
E, per inciso, proprio in quel passaggio maturavano le necessità di ricorrere al giochino delle plusvalenze a specchio, con gli scambi fra Inter e Milan.
«Esatto. Il mondo dello sport, del calcio in particolare, era completamente impreparato ad adattare e ad armonizzare gli effetti di questa pronuncia. Ma c’era soprattutto una questione di dignità del calciatore come lavoratore. Ricordiamo appunto, per esempio, il diritto al lavoro, quindi casi di mobbing, il diritto a rifiutare una destinazione non gradita, a rifiutare il trasferimento. Tornando sulle plusvalenze, è vero che la Sentenza Bosman ha aperto un trade market di calciatori sconosciuti o semisconosciuti. Che magari erano figli di segretari di società, scambiati per cifre esagerate. Questo purtroppo è un lato oscuro del calcio. È anche una conseguenza del fatto che nel calcio non è stato trovato un criterio oggettivo per assegnare un valore di mercato al calciatore. A ogni modo, questa deregulation del mercato dei trasferimenti produce effetti non soltanto in ambito sportivo, ma anche in ambito penale. E questo, va detto, ha anche inficiato la percezione che nel mondo del calcio si ha del concetto di plusvalenza. Che in linea di principio è la conseguenza perfettamente lecita di una transazione di mercato, ma che nel calcio sconta una tara di pregiudizio legata a operazioni opache».
Allegri, allora allenatore della Juve, rimarcò in diretta televisiva la sua cravatta di colore “azzurro Napoli”. Dopo allora ha avuto modo di incrociare Allegri e tornare sull’episodio?
«Un siparietto ironico, come nel suo stile. È stato un modo anche simpatico per sottolineare il fatto che comunque io ho questo rapporto sicuramente consolidato con il Napoli».
Lei svolge un mestiere che la porta a essere identificato come schierato con alcune società. Ciò che, quando il clima calcistico si avvelena, può avere ripercussioni negative.
«Ricorderà il caso delle fideiussioni false (estate 2003, ndr). Io in quella vicenda tutelavo le ragioni dell’Atalanta, il presidente Ruggeri. L’Atalanta si lamentava che la Roma si fosse iscritta al campionato con una fideiussione falsa. La federazione riteneva Roma e anche Napoli di allora (ma era un altro Napoli) portatrici di buonafede. L’Atalanta riteneva invece che il comportamento della Roma fosse irregolare e che per questo dovesse essere esclusa dal campionato, con riammissione in A della stessa Atalanta. In quel periodo venni fatto oggetto di pedinamenti e minacce sotto lo studio da parte di simpatizzanti della Roma e telefonate offensive in studio, in cui interlocutori con l’accento romano, ovviamente, mi invitavano a lasciare perdere perché la Roma non poteva essere attaccata da questa vicenda. Poi, nel 2006, Calciopoli, io dipendevo delle ragioni del Bologna, società retrocessa. Il Bologna era la seconda delle aventi diritto al ripescaggio dopo il Messina. La Caf, in primo grado, retrocesse in B la Juve, la Lazio e la Fiorentina. Il Bologna era ripescato. Con il secondo grado, con la sola retrocessione della Juv entus, fu ripescato solo il Messina. In quel per iodo, tra luglio e agosto 2006, fui attaccato pesantissimamente non solo dai tifosi, ma anche da media, addetti ai lavori».
Capitolo presidenti: quello con cui ha avuto il ruolo più conflittuale?
«Il dottor Claudio Lotito. È stato ed è, nel senso che tutti ricorderanno la famosa vicenda Pandev-Lazio. Pandev, in quel momento, 26 anni, uno dei calciatori con più gol nella storia della Lazio, era in scadenza di contratto l’anno dopo. Subì una serie di comportamenti che ritenne illegittimi e ricorse al Collegio Arbitrale per ottenere la rescissione del contratto per mobbing. A dicembre fu svincolato e pochi giorni dopo la riapertura del mercato a gennaio, si tesserò per l’Inter, dove con Mourinho in panchina giocò da titolare in tutte le partite di campionato, vinse il campionato, vinse la Coppa Italia e vinse la Champions a Madrid nella finale con il Bayern Monaco, e quindi fece il triplete. Poi, pochi anni dopo, difesi Delio Rossi contro la Lazio per il premio qualificazione UEFA. E ciò ha fatto sì che i rapporti col presidente della Lazio siano meno distesi che con altri»
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