Cristian Jorgensen: «Io, Maradona e quelle lunghe notti passate a parlare dei suoi genitori»
Libro “Mis últimas aventuras con el 10 en la Tierra” di Cristian Jorgensen
Un libro-omaggio che ha voluto presentare anche a Napoli, ai Quartieri Spagnoli
«Non è la sua storia» ripete più volte a telefono tra l’Argentina e Napoli. Non è la sua storia, quella la conosciamo tutti benissimo. E allora cos’è “Mis últimas aventuras con el 10 en la Tierra” di Cristian Jorgensen? «Un omaggio al più grande. Un atto che era dovuto» racconta l’ultimo preparatore atletico che ha condiviso con il Pibe partite, spogliatoi, notti in ritiro. Intervista de Il Mattino:
Un libro-omaggio che ha voluto presentare anche a Napoli, ai Quartieri Spagnoli, dove l’anima di Maradona ancora aleggia forte: «Vederlo re nella vostra città mi ha fatto capire quanto è grande l’amore che aveva per i suoi napoletani e mi ripeteva spesso».
Da dove nasce il libro?
«Da una doppia esigenza. L’idea me l’ha data Daniel Arcucci, autore del libro “El Diego de la gente”, mi disse che non si poteva lasciar andare una storia così come la mia con lui. Ho dovuto fare un percorso con una psicologa che mi ha aiutato per far uscir fuori tutto nel modo migliore».
Cosa racconta?
«Gli ultimi due anni di vita passati sul campo. Non tutto quello che viene prima, che ben si conosce, né quello che accade dopo. Ma i due anni al Gimnasia, dove io ho lavorato con lui da preparatore».
Chi ha conosciuto: Diego o Maradona?
«La fortuna è averli visti entrambi. L’uomo più famoso d’Argentina e l’eroe che sedeva al tavolo con tutti».
L’ultima volta insieme?
«Al suo 60° compleanno. Ovviamente in campo».
Si aspettava quello che è successo?
«All’ultimo nostro incontro, venticinque giorni prima della morte, era una persona serena e sana. Non mi sarei mai aspettato tutto quello che è successo dopo».
Che relazione avete avuto?
«Era appena arrivato al Gimnasia e sembrava conoscere tutti da sempre. Ma l’inizio fu complicato».
Come mai?
«Indossavo una maglia di un colore che non gli piaceva, mi disse subito di cambiarla. Non me lo feci ripetere due volte. E quando vide che mi ero cambiato, venne da me a scherzare insieme. Mi disse: “Non preoccuparti. Faremo un ottimo lavoro”. E così è stato poi».
Troppo breve, forse.
«Sì, ma i due anni vissuti con Diego sono stati come un master universitario intenso per me. Sempre insieme, partite, viaggi, soprattutto ritiri. In un periodo complicato come quello della pandemia, che ci “costringeva” a vivere distanti ma uniti. Vedere quello che accadeva su ogni campo, quando ci andavamo con Maradona è stata una lezione di vita».
Una divinità.
«Ho l’immagine ancora chiara della gente che prova a toccarlo ogni volta. Prova a rubarne un pezzo di cammino. Mi sono chiesto tante volte: perché lo fanno? La psicologa mi ha poi spiegato che è un atteggiamento umano: la gente provava a toccarlo per capire se quel dio terrestre fosse una cosa reale».
Cosa non dimenticherà mai?
«Tutto. Ma soprattutto le notti che passavamo insieme in ritiro prima delle gare. Parlavamo di tutto, si abbatteva ogni muro. Ma non parlavamo quasi mai del pallone, che pure era il suo amore numero uno. Si discuteva di asado, di pizza, di valori umani e di esperienze soprattutto. Mi parlava spesso dei suoi affetti, dei suoi genitori, il suo dolore più grande. Ecco, nell’ultima fase della sua vita Diego avrebbe voluto festeggiare i compleanni con loro. E con tutta la famiglia. Era riuscito a mettere insieme un Paese intero come l’Argentina, tante squadre con compagni diversi, ma non ci era riuscito con la sua famiglia negli ultimi anni».
Oggi ne restano le gesta e i giudizi in tribunale.
«Speriamo che possa avere giustizia. La gente gliel’ha già resa prima e dopo la morte. Ho visto, nei giorni successivi alla notizia della scomparsa, alla Casa Rosada per lui lo stesso pellegrinaggio che c’è stato poi per Papa Bergoglio».
