Parla il figlioccio di Conte, Fabregas: “Con la sua chiarezza e autorevolezza ti porta sempre all’obiettivo”
Dentro Fabregas ci sono tre parti di Wenger e una a testa di Guardiola, Mourinho, Conte e Luis Aragonés. Domenica questa originale combinazione di idee, princìpi calcistici, esperienze vissute e assimilate e successi, tanti successi, compirà 38 anni, festa a Lugano, immagino, dove sua moglie ha scelto di vivere per favorire gli studi dei figli. Scuola americana, of course.
L’appuntamento è alle undici, e alle undici in punto Cesc si presenta nell’ufficio di scorta, sulla lavagna i suoi geroglifici e poi tre sedie e un tavolo.
Il centro sportivo del Como a Mozzate ha appena due anni e sta per essere completato su indicazione del Catalano Ovunque che non trascura un solo particolare. Ho l’impressione che ci sia un po’ di Fabregas anche nei campi in costruzione, negli uffici, nelle varie sale degli edifici che compongono il centro e nelle zone in cui i lavori devono ancora essere ultimati.
Ma sarà lui a tagliare il nastro inaugurale? Resterà a Como ancora un anno?
Partiamo con evoluzioni di cazzeggio artistico.
Facciamo un salto all’indietro di undici anni.
«Uscivo dal Barcellona e l’Arsenal, dove ero stato otto anni, vantava un’opzione che sarebbe scaduta dopo una settimana. Nessuno s’era fatto vivo per cui io e il mio agente Darren Dein cominciammo a incontrare altri club. Nello stesso giorno si presentarono a casa mia Begiristain per il City e Mourinho per il Chelsea. Uscito il primo, arrivò l’altro, e quasi si incrociarono. Begiristain parlò a lungo, espose le sue idee, non andò mai in profondità. Mentre in un solo minuto José mi convinse, quando sulla porta ci salutò io e Darren ci guardammo e sembrò a entrambi di aver già il contratto in mano».
Cesc, perché uno che ha fatto Arsenal, Chelsea, Barcellona e centodieci partite con la nazionale spagnola sceglie Como. C’entra sempre Dein?
«Un po’ sì, è lui che ha tracciato i contorni del percorso. C’era un ragazzo, Luis Binks, ricordi?, che aveva giocato nel Bologna ed era finito in prestito al Como. Proprio ai dirigenti del Como Darren ha cominciato a chiarire la mia situazione e loro hanno mostrato interesse. Io ero in scadenza con il Monaco e sentivo che era il momento giusto per cambiare e crescere. Cercavo un progetto diverso, desideravo qualcosa di nuovo. Ricordo di aver parlato anche con la Salernitana. Offriva un contratto di due anni, ma dopo cosa avrei fatto? Il mio progetto personale era quello di giocare ancora e cominciare a pensarmi allenatore, il Como mi ha dato questa opportunità. Una volta alla settimana seguivo la Primavera, nel frattempo ho fatto il corso e preso quote della società. Tutto quello che avevo in mente, che avevo progettato, è successo molto, molto, molto più velocemente di come mi aspettavo. Avevo firmato un contratto di due anni e volevo giocare due anni, ma dopo il primo non me la sono più sentita. Quello che è successo in seguito ha accelerato il processo».
A soli 38 anni sei già un allenatore di tendenza.
«Cosa intendi per tendenza?».
Sei già ambitissimo.
«Sono giovane e credo di sapere come gira. Quando José scherzava con noi ripeteva “non mi frega niente dei momenti brutti, visto che mi mancano trent’anni da allenatore”, ci faceva capire che è un lavoro molto usurante. Guardiola si è fermato un anno, e Mourinho una volta sei mesi».
Sì, ma non per sua volontà.
«Lo so, lo so. Negli ultimi tempi questo mestiere è cambiato e ogni tanto è necessario ricaricare le batterie. Oggi l’allenatore è tutto. È praticamente il CEO della società senza esserlo, ci mette la faccia quando si perde, quando si vince e quando bisogna fornire delle spiegazioni».
A Como godi di una libertà quasi unica, hai voce in capitolo su tutto. In un grande club non ti sarà facile ottenere la stessa autonomia.
«Non lo so, è presto per parlarne. Io ti posso raccontare solo la mia esperienza a Como dove siamo un gruppo. Il presidente, il direttore Charlie ed io. E poi c’è Osian Roberts, che è un po’ il responsabile del settore giovanile, una persona della quale mi fido ciecamente e che tante volte mi è d’aiuto sui temi più delicati. Sì, sono molto fortunato perché qui mi garantiscono tanta libertà».
Del tuo Como ha sorpreso l’originalità della proposta, si dice così ormai, la personalità del gioco.
«Beh, sì, questo dipende un po’ dallo stile. Ci sono tanti modi di fare calcio e non se ne può escludere uno. Simeone vince alla sua maniera, Guardiola alla sua, così come José e Conte. Sono tutti stili differenti, però è calcio vero. È importante credere in quello che si fa. Potrei tranquillamente dire ai miei dài, andiamo a giocare palla lunga e conquistiamo la seconda palla. Ma non saprei come allenare la squadra, nel senso che non credo in quel calcio, non potrei mandare il messaggio giusto al giocatore. Il giocatore intelligente ti guarda in faccia, ti analizza. Se non è sicuro di quello che sta facendo tocca a me dargli gli input giusti e convincerlo. Io mi adatto a quello che abbiamo e poi provo a trovare tutte le soluzioni per andare a vincere. Però è vero che stiamo giocando praticamente il 70% della stagione con Da Cunha, Perrone e adesso Caqueret a centrocampo che sono esterni, numeri 10, numeri 8, non c’è un play tipo Rodri del Manchester City, o Paredes, uno che è più fisico e posizionale. Questa te la racconto».
Vai.
«Dopo aver vinto la B mi ritrovai a cena a Trento con Pecchia e Capello. Fabio mi disse: “Cesc, adesso non puoi più giocare così eh, adesso ti devi difendere di più”. Insistette sulla difesa, difesa, difesa. Quella sera andai a dormire più convinto che mai».
Di cosa?
«Che avrei seguito la mia strada e la mia filosofia».
Capello ha vinto tanto.
«È esattamente ciò che ti ho spiegato prima, stili differenti ma sempre calcio. Io ho vinto con tutti, con Conte, con José, con Guardiola, ho vinto con Vilanova, ho vinto con alcuni tra i più grandi della storia. A me piace studiare il calcio, uno che studio molto è Ancelotti».
Dimmi di Conte.
«Antonio è un fenomeno, un fenomeno. Potrei giocare e allenare giorno dopo giorno come fa Antonio? Sicuramente no. Però ho imparato tantissimo. Da Antonio, dalla sua metodologia e, soprattutto, dal suo messaggio costante, dalla sua idea. La mia è un po’ diversa dalla sua, tuttavia lui con la sua chiarezza e autorevolezza ti porta sempre all’obiettivo».
C’è qualcosa che lo avvicina a Pep? Il temperamento, l’ossessione?
«E a Mourinho anche, io l’ho ripetuto in tante interviste. Mourinho e Guardiola diversi? Ma diversi in cosa? Sul campo forse, ma fuori sono malati di vittoria, hanno una incredibile mentalità vincente e una notevole capacità di trasferirla alla squadra. Antonio è della stessa pasta».
Ma questo continuo riferimento alla personalità, agli attributi, non riduce un po’ l’incidenza della tattica?
«Era così anche in passato. Ricordo quando ho iniziato a giocare in Premier, era tutto un parlare di cojones. Ho fatto il mio debutto a 17 anni contro Lee Carsley e Gravesen dell’Everton, una guerra. Palla lunga e seconda palla e lotta, lotta, lotta e si finiva per terra. Il calcio è migliorato tanto. Ma c’è meno libertà d’espressione per il giocatore. Oggi è tutto molto più meccanizzato, robotico».
E, ne converrai, lo spettacolo risulta meno piacevole.
Fonte: CdS
