Roberto Beccantini (Cds): “Conte mollò la Juventus all’alba del ritiro estivo del 2014. Abbandonò l’Inter cinese nel 2021, a Napoli già frigge…!”

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Siamo ciò che ricordiamo. Siamo la memoria che barcolla all’uscita di un saloon, cowboy vagante e ruttante. Era il 19 febbraio, quando il Real di Carlo Ancelotti disintegrava il Manchester City di Pep Guardiola per 3-1 e i gol li realizzava tutti Kylian Mbappé. Nemmeno a Plaza de Cibeles, nicchia blanca di Madrid, si celebrò l’evento con l’enfasi delle nostre edicole. Poi, tra l’8 e il 16 aprile, l’Arsenal ha eliminato proprio quel Real lì: 3-0 a Londra, 2-1 al Bernabeu. Fine delle apologie di beato. I titoli smontati come il tendone di un circo; le serenate al principe delle risorse umane arrotolate di nascosto; la coppa tornata salume; Mbappé esiliato metaforicamente a Sant’Elena.

 

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Antonio Conte ve lo raccomando. Mollò la Juventus all’alba del ritiro estivo del 2014. Abbandonò l’Inter cinese nel 2021, all’indomani dello scudetto. Sempre e comunque in largo anticipo sulle scadenze pattuite. A Napoli già frigge, frastornato da un braccio di ferro con la sua ex che potrebbe modificargli la vita, oltre che il domicilio. Non si discute il suo magistero, la sua presa vampiresca, da Conte Dracula, sui campi di Castel Volturno; né si pretende che abbia letto Rudyard Kipling e tratti allo stesso modo il successo e la sconfitta, «questi due impostori». C’è però un limite, e riguarda la smania che lo spinge, pur lautamente pagato, a piangersi addosso. Per carità, precipitare da Khvicha Kvaratskhelia a Noah Okafor deve essere stato un incubo, per le ambizioni del suo Ego, ma siamo ciò che ricordiamo e – se non ricordo male, appunto – i tecnici godono di una venerazione quasi biblica: non avrai altro Io all’infuori di me.

«Rammento ergo sum». La Marotta League vilipesa dallo zoccolo juventino incarna il panorama di un Paese che, in materia di reminiscenze, non teme né dazi né Curiazi, tanto sa maneggiare e modellare lo spirito del tempo. Adesso sono gli interisti che se lo coccolano, il buon Beppe, e guai a chi osa rimestare tra le «curve» (uhm) del suo passato, un passato, per la cronaca, così politicamente andreottiano, dagli Agnelli a Suning e a Oaktree, grande vecchio o vecchio grande in ragione della militanza.
Se essere ciò che si ricorda è impegnativo, dimenticarlo o simularne gli effetti lo è ancora di più, e invade territori morbosi, promesse disattese, sbalzi di fede e fedine. Simone Inzaghi era il più antico degli allenatori moderni: rimesse laterali a parte, sta diventando il più moderno degli allenatori antichi. In nome della coerenza ci si aggiorna, ci si adegua. «Chi non cambia mai idea, non cambierà mai nulla», ammoniva George Bernard Shaw. Un invito al quale sarebbe consigliabile opporre un fiero e sdegnato sì.

 

A Bologna, la statua di Thiago Motta è stata abbattuta nel giro di una stagione. La corda che ci lega al palo delle amnesie e delle piroette, carcerieri o carcerati, è il risultato. Nell’accezione più marziale del termine. Ci aspetta al varco, esattore implacabile. Difficile scansarlo. A meno di non rivolgersi ad Albert Einstein: «La memoria è l’intelligenza degli idioti». Ma allora tutto è relativo, uffa.

 

Fonte: Cds

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