Bianchi: “Napoli è bellezza e gioia, lì ho ricevuto la vera lezione di vita. Ecco i tre valori che rimpiango di più nel calcio”

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Ottavio Bianchi ha una voce pastosa e calda. Gentilissimo, disponibile, ironico. Vive a Bergamo Alta. Nella sua bella casa non c’è un pallone, una maglia, una targa. Il calcio è rimasto fuori dalla porta, da più di 20 anni. Lo ha lasciato, parole sue, «dalla sera al mattino», come quando ha smesso di giocare. Una decina di anni fa gli hanno chiesto: le piacerebbe tornare ad allenare? E lui: «No». È stato un allenatore di ghiaccio. Lo hanno battezzato, o etichettato, in tanti modi. Orso e martello. Antipatico e musone. Duro e aggressivo. Addirittura sgradevole, uno che non sorride mai. Maradona, raccontano, rivelò un dettaglio curioso: «Bianchi ride se siamo tutti seri, fa il serio se ridiamo tutti».

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Signor Ottavio, ma era proprio così?
«Ma no, erano luoghi comuni. E le dirò, anche stupidi. Io sono cresciuto con la cultura del lavoro, in casa e sui campi. Mio padre era tipografo al Giornale di Brescia, lavorava e respirava il piombo. Uno dei miei primi allenatori a Brescia, Renato Gei, diceva: forza ragazzi, olio di gomito, laurà, laurà, laurà. Lavoro, impegno, serietà».
Lei ha incominciato a lavorare a 17 anni, in Serie B, con il Brescia. Suo padre non era d’accordo.
«Voleva che diventassi ragioniere, come mio fratello. E invece ho fatto il calciatore. Ho esordito nel 1961 contro il Parma, ho giocato malissimo. I vecchi mi facevano correre come un cavallo senza briglie. Subito dopo il debutto mi sono fermato per un bruttissimo infortunio, ma sono andato avanti. Amavo il calcio, era la mia vita. Quando avevo 7, 8 anni mi chiedevano: cosa farai da grande? Io restavo lì: ma questi che domanda mi fanno? Il calciatore, no?».
Bianchi, a sinistra, quando indossava la maglia dell’Atalanta nel gennaio del 1972: a destra, Sogliano del Milan. 
E lo ha fatto. Bene?
«Sono molto contento. Una buona carriera, ho dato, ho ricevuto. Ho giocato con Brescia, Atalanta, Milan, Cagliari. Con allenatori maestri: Gei, Pesaola, Chiappella, Rocco. Poi nella Spal, dove sono diventato anche allenatore».
Ha giocato con Sivori, Rivera e Riva. Era in buona compagnia…
«E con Zoff, Altafini e Juliano. Sivori era un talento assoluto, personalità, cattiveria calcistica. Era bravo, lo sapeva. Non voleva essere secondo a nessuno, nemmeno a Pelé. Aveva gli occhi dietro la testa, faceva le cose più difficili con una facilità pazzesca».
Molti adesso dicono: io, io, io. Io sono, io faccio, io ho deciso. Qualche volta bisognerebbe sentire dire un “noi”. 
Lei diceva: il vero fuoriclasse semplifica le cose difficili. Come Rivera?
«Con lui al Milan sono stato solo 14 partite. Gianni era elegante, lo stile in persona, il più grande uomo assist che abbia mai visto. Però non poteva essere uomo squadra, nel senso in cui lo erano Di Stefano o Cruijff. Rivera, secondo me, è stato l’esempio classico del grandissimo giocatore finisseur».
Un ricordo di Gigi Riva?
«Un campione di umiltà, un imperatore. Anche lui come Dino Zoff, un hombre vertical. Altri tempi, altri uomini, altri giocatori e allenatori. Allora era così: entravi nello spogliatoio e sentivi l’odore di canfora. Molti adesso non sanno cos’è quell’odore, penetrante e pungente, diciamo quel profumo. Dicono: io, io, io. Io sono, io faccio, io ho deciso. Qualche volta bisognerebbe sentire un “noi”».
Voi a Napoli avete vinto lo scudetto, il primo. Con la figlia Camilla, giornalista, ha scritto la sua biografia: “Sopra al vulcano”. Cosa è stata Napoli?
«Sono nato a Brescia, vivo a Bergamo da 50 anni, ma la vera lezione di vita l’ho ricevuta a Napoli: 13 anni, prima giocatore e poi allenatore. Napoli è bellezza, è gioia. Sono stato bene perché i napoletani mi hanno accettato, non hanno cercato di cambiarmi».
Avrebbe voluto essere diverso?
«No, non ho mai desiderato cambiare, ho convissuto con i miei difetti e con gli anni ho acquisito una buona autoironia. Checché ne dicano, sono sempre riuscito a sorridere».
Rivera è il più grande uomo assist che abbia visto. Non un uomo squadra. Riva era un campione di umiltà, un imperatore. Come Zoff, un hombre vertical. 
La sua arma vincente?
«La normalità. Le mie armi erano quelle delle persone normali».
È vero che Achille Lauro le disse: “Guaglio”, m’avevano detto che tenevi la capa tosta”?
«Sì, al primo incontro da giocatore. Poi sono andato via perché mi hanno fatto passare per sindacalista. Sono tornato come allenatore e, nel 1987, abbiamo vinto il campionato».
Tecnico del primo scudetto, di una Coppa Italia e della Coppa Uefa. Nessun allenatore, a Napoli, ha vinto quanto lei. Però molti dicono: lo scudetto di Maradona. Solo Diego?
«L’abbiamo vinto insieme. C’erano anche Bagni e Ciro Ferrara, c’era “anche” il collettivo e l’organizzazione di gioco. Diego in campo, è inutile che lo dica io, era una leggenda del calcio, molto diverso da come lo dipingevano. Quando lo prendevi da solo era un bravissimo ragazzo, bello da vedere e da allenare. Dicevano tutti che non lavorava, ma non era vero, perché Diego usciva per ultimo, restava per inventare le punizioni. Purtroppo era circondato da una pressione che nessuno penso fosse in grado di sostenere. Fuori non l’ho mai giudicato, non l’ho fatto con nessuno. In campo era una gioia allenarlo».
Lei ha ottenuto ottimi risultati anche con Atalanta, Como e Avellino. Un po’ meno con Roma, Inter e Fiorentina…
«Ho sempre lavorato in situazioni complicate, ma, soprattutto in provincia, con grandi soddisfazioni e lanciato giocatori importanti, come Matteoli, Fusi, Donadoni, Diaz, De Napoli».
Signor Ottavio, come vive adesso?
«Ho 81 anni, sono una persona tranquilla. Vivo bene. Purtroppo da anni ho perso mia moglie. Ho due figli splendidi, conservo qualche hobby, guardo con un po’ di distacco qualche partita in tv».
Nell’ ambiente calcio si sono perduti diversi valori. Quali rimpiange di più?
«La lealtà, il rispetto dei ruoli e la sincerità».
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