L’INTERVISTA – Daniel Bertoni a Il Mattino: “Maradona è riuscito a essere l’Argentina”

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Daniel Bertoni, allenatore ed ex calciatore del Napoli, ha parlato in un’intervista Il Mattino, in cui, fra le altre cose, ricorda i tempi in cui giocava in azzurro con Maradona.

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Il telefono nella sua casa a Quilmes, a pochi chilometri da Buenos Aires, rimanda indietro una voce inconfondibile, vitalissima e piena di grinta. «Ho iniziato qui a giocare, su queste strade. Ma dove c’era il primo campo ora c’è un rione pieno di case». I ricordi del señor Daniel Bertoni sono nitidi. Il 14 marzo compie 70 anni, la settimana dopo Napoli-Fiorentina: «I miei anni più belli. Con Antonio Conte lo scudetto non è un sogno ma non mi piace mai vedere i viola perdere». Due figli, quattro nipote, il gol nella finale mondiale del 1978 e quattro campionati italiani… persi: «Ogni volta che sono arrivato a un bivio, sono andato dalla parte opposta allo scudetto»”.
Il difensore più difficile è stato il tumore alla prostata?
«Beh, ma ho fatto gol anche a lui. Ho avuto paura, quando senti quella diagnosi il colpo è duro. Ma anche con l’aiuto di uno psicologo, mi sento fuori da quel tunnel. Ho sempre pregato tanto, ho la bibbia come libro sul comodino e in queste notti, prima di dormire, prego anche per la salute di Papa Francisco».
Sono un bel traguardo, i 70 anni.
«Ho avuto tutto dalla vita, sono stato felice semplicemente con un pallone tra i piedi. I ragazzi di oggi non possono mai provare quella gioia, visto che adesso hanno tutto. Noi, no. I sacrifici per farmi giocare sono stati immensi da parte dei miei genitori, ma io li ho ripagati: a 18 anni, con l’Indipendiente, avevo già vinto la Libertadores e l’Intercontinentale».
Però, lo scudetto in Italia lo ha sempre solo sfiorato.
«Assurdo. Alla Fiorentina lo perdo all’ultima giornata: alla Juventus danno il rigore che Brady trasforma a Catanzaro e a noi a Cagliari annullano la rete di Graziani. Poi mi vuole la Roma, perché Dino Viola sogna la coppia con Falcao, ma Pontello si impunta e dice di no. E i giallorossi vincono il titolo. Poi devo scegliere: il Verona o il Napoli? Scelgo Diego Maradona, cos’altro avrei dovuto fare. Noi arriviamo ottavi e Osvaldo Bagnoli conquista il titolo. E non è finita. Io vado via dal Napoli e gli azzurri trionfano».
Fu Maradona a non volerlo più?
«No, non decise lui ma Bianchi con cui litigavo sempre. Ma Diego non fece nulla per convincere Allodi a tenermi».
Primo ricordo?
«Bambino, ala destra in quello che oggi diremmo era un 4-3-3. Ricordo le urla: “Pumba, pumba” che vuol dire “attacca, puntalo”. Mi emoziona il pensiero…».
Bertoni, chi è stato Maradona?
«Maradona è riuscito a essere l’Argentina, la sua anima fredda e tragica e quella calda. Era diventato un leader venendo a vedere le gare del mio Independiente dove c’eravamo io, el Bocha Bochini, El Chivo Pavoni. A Napoli a ogni punizione era una discussione con lui a chi calciare: erano come rigori. Con l’Arezzo in Coppa Italia lo anticipai e segnai. Venne vicino minaccioso: “non lo fare più”».
Come ha fatto a giocare il Mondiale del 1978 nonostante il regime?
«Nessuno di noi immaginava che tanti ragazzi erano lì che morivano a Campo de Mayo o alla Escuela de Mecanica de l’Armada. Mai avrei giocato quel mondiale se avessi saputo che la dittatura di Videla stava sterminando una intera generazione. Segnai il gol in finale all’Olanda, ma quello più importante lo feci all’Ungheria nella fase a gironi».
Cosa ricorda di quegli anni?
«Le menzogne. Prima del Mundial in Spagna era scoppiata la guerra per le Maldivas. E io, che vivevo già a Firenze, sapevo che stavamo perdendo e che avevamo tutti contro, anche il Cile e gli Usa. Mio padre José, era un patriota e mi parlava della battaglie vinte contro gli inglesi perché sentiva la tv: “Papà, ma che dici? È un disastro”. Il vero rimpianto è che avremmo dovuto dire di no alla partecipazione a quel mondiale. Perché allora sapevamo, nel ‘78 no».
Che anni sono stati a Napoli con Maradona?
«Ho una immagine particolare: mio padre e il suo vicini a vederci allenare sugli spalti del San Paolo. Sempre. Don Diego confidò anche le difficoltà economiche del figlio dopo aver lasciato Barcellona, anche le sofferenze personali».
Il suo mondo napoletano?
«Signorini, José Alberti venivano spesso a casa mia. Ma anche con Pesaola ci incontravamo a cena. Il Petisso spiegava che il suo soprannome era legato al fatto che “era stato un ragazzino vivace”. Ma noi sapevamo che era per la sua altezza. L’idolo argentino di allora dei napoletani era Omar Sivori. Me ne parlavano tutti. Come a Siviglia, erano tutti ai piedi di Di Stefano».
Chi è stato il suo idolo?
«Bochini. Era il 10 sublime, uno spettacolo di calciatore che aveva come missione quello di andare in area prendendo velocità e facendo giocate che nessuno si aspettava potesse fare».
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