Napoli-Juventus, da sempre una sfida nel segno del numero 10

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Così grandi, così diversi. Nel calcio il 10 non è un numero: è arte. E gli artisti più grandi di questa categoria hanno frequentato la serie A negli anni ‘80. Un tempo lontano e indimenticabile. Perché poi il 10 è diventato un peso per allenatori ossessionati dei moduli.
Così grandi, così diversi: Diego Armando Maradona e Michel Platini, simboli di due squadre, Napoli e Juventus, e di due storie. Gli emblemi del popolo e del potere, volendo sintetizzare. «Quando arrivai a Napoli i tifosi non mi chiesero di vincere lo scudetto ma di battere la Juve», raccontò Maradona nell’autobiografia “Yo soy El Diego” scritta con il giornalista Daniel Arcucci. La gente trasmise a Diego, il nuovo capopolo, l’ansia di vincere quella partita che nella storia calcistica azzurra mai è stata e mai sarà una partita qualsiasi.

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La differenza tra Diego e Michel è nelle loro origini. L’Argentina, il Sud del mondo come la definì Papa Francesco, e la Francia, potenza d’Europa. E anche nella scelta del club quando decisero di sbarcare in Italia, Platini nell’82 e Maradona nell’84. Platini – cartellino pagato 250 milioni di lire – alla Juve che aveva già vinto tanto e Maradona – affare da 14 miliardi di lire – al Napoli che aveva vinto quasi niente. Diego, quando era diciottenne, era stato segnalato da Omar Sivori a Giampiero Boniperti. «Il presidente della Juve disse che con questo fisico non avrei fatto carriera: beh, qualcosa sono riuscito a farla…». Platini, nelle interviste dopo la morte di Diego, rivelò che alla vigilia del suo ultimo campionato italiano, che fu poi quello del primo scudetto di Maradona, c’era stata l’idea di portarlo a Napoli: l’aveva avuta Italo Allodi, il manager del club di Ferlaino. «Avremmo potuto giocare insieme e io avrei lasciato la 10 a Diego». Disse parole toccanti, Michel, in quelle ore in cui tutto il mondo piangeva per Maradona. «È stato il più grande innamorato del calcio. Penso che ci saremmo divisi alcuni Palloni d’oro ma allora c’erano altre regole». Michel ne vinse tre quando era alla Juve, Diego uno ma a fine carriera, perché all’epoca solo i calciatori europei potevano conquistare il trofeo.

Platini, «il freddo» come lo definì Maradona, era stato conquistato dalla passione dei napoletani, vissuta e affrontata da avversario. Quando era presidente dell’Uefa, in un’intervista al Mattino in cui si complimentava col Napoli per il ritorno in Champions League nel 2011, ricordò le immagini delle anziane donne affacciate ai balconi della Riviera di Chiaia e di viale Augusto quando passava il pullman della Juve. «Ci dicevano di tutto… E poi allo stadio che meraviglia». Era a Napoli quella domenica del 3 novembre dell’85 quando al minuto 72 Maradona inventò il gol su punizione, uno dei suoi più belli. E c’era un anno dopo a Torino, 9 novembre dell’86, quando il Napoli vinse per 3-1 e iniziò la scalata al primo scudetto. Alla fine di quel campionato, a 32 anni, Platini chiuse con la Juve e il calcio mentre a Napoli da giorni andava avanti la festa per il tricolore.
Quella di Platini fu una scelta. Quella di Maradona, no. Fu costretto a lasciare Napoli il Lunedì in Albis del ‘91 perché era stato squalificato per cocaina. Ma non ruppe con Napoli. Il rapporto restò anzi profondo e lo è anche dopo la sua morte. Platini non è stato al “Largo Maradona”, quell’angolo dei Quartieri spagnoli che è diventato luogo di devozione del Mito. Avrebbe visto come un uomo riesce a restare per sempre nella memoria di chi lo ha amato, anche se non lo ha conosciuto e non ha visto a Fuorigrotta le sue sfide con campioni come Michel. «Sfida. La parola che imparai con quando arrivai in Italia. Ma io non sfidavo Zico o Maradona: sfidavo l’Udinese e il Napoli», disse Le Roi che aveva vissuto sul campo uno dei momenti più drammatici di tutti i tempi. Fu suo il rigore che consentì alla Juve di battere il Liverpool nella finale di Coppa dei Campioni del 29 maggio ‘85 a Bruxelles. All’Heysel, dove morirono 39 spettatori (32 italiani) dopo l’assalto degli hooligans inglesi ai tifosi bianconeri. «Quella partita non l’ho mai dimenticata», spiegò quando era presidente dell’Uefa. Non l’ha mai dimenticata perché mai si sarebbe dovuta giocare.

Così grandi, così diversi. Maradona e Platini hanno seguito percorsi differenti a fine carriera. Michel, prima di una vicenda giudiziaria dalla quale venne scagionato, è stato il presidente dell’Uefa, l’alleato forte del presidente della Fifa Blatter e anche candidato alla sua cessione. Maradona avrebbe voluto restare in campo, dove la sua vita è stata sempre felice. Ha fatto l’allenatore per qualche anno, realizzando il sogno di guidare l’Argentina, così come Michel, prima di diventare manager, aveva diretto la Francia, condotta da capitano al titolo europeo nell’84. Maradona “quel francese” non lo sopportava. Spiegò un giorno: «Se il vento va a sinistra, lui è a sinistra. Se il vento va a destra, lui è a destra». E poi aveva lanciato pesantissime accuse: «Un giorno a Dubai mi confidò di avere combinato 167 partite. Lui e Blatter si spartiscono i soldi dal 1998. Avrebbero voluto offrirli anche a me ma io li guadagno lavorando, non fottendo la gente. Chi è Platini? Un bugiardo e un commediante». Ma quando si incontravano, come accadde a Dubai per una premiazione del Diez, si abbracciavano. E il primo passo lo faceva sempre Michel, rispettoso dell’amico-nemico. Pensava alle loro sfide a Napoli e Torino o nelle nazionali (la prima partita nel ‘79, Argentina contro il Resto del mondo per celebrare il titolo vinto un anno prima dalla Seleccion), non dando peso a quelle parole piene di veleno.

«Diego e Michel? Maradona raccontava due aneddoti su Platini», ricorda Stefano Ceci, per molti anni assistente del Pibe. «Diceva che in occasione della partita d’addio del francese erano andati a prenderlo in limousine e lo avevano poi lasciato da solo nello spogliatoio, costringendolo a chiedere un passaggio per tornare in hotel. E poi la gara con la Juve dell’85: Diego si raccomandava con Celestini di non dare confidenza a Platini, che parlava tanto per distrarlo: “Attento, così ti fotte”. E ricordo ancora quando indossò una maglia con le foto di Blatter e Platini: “I due ladroni”, la scritta». Maradona era uomo del popolo ma aveva rapporti con i potenti, da Fidel Castro a Vladimir Putin, che a Mosca in occasione della presentazione del Mondiale 2018 lo attese per ore in silenzio. «Sa, presidente, Diego sta ancora dormendo». Maradona avrebbe voluto una seconda vita in panchina. La parentesi con l’Argentina, finita al Mondiale del 2010 (dove altre accuse aveva lanciato a Blatter e Platini), fu breve e l’addio doloroso. Il successore di Blatter, l’italo-svizzero Infantino, lo aveva inserito nel suo team. Avrebbe voluto i consigli di Diego per migliorare il calcio ma non c’è stato il tempo.

 

Fonte: Il Mattino

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