GdS – Il “gatto” Perin piace al Napoli, non ha peli sulla lingua e invita alla resilienza!

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Mattia Perin è un gatto, ha l’agilità mentale di un felino, di quelli che però non sonnecchiano sul divano tutto il giorno. E’ alle prese con la rieducazione dopo la seconda rottura del legamento crociato, ma la sua mente è libera, vola lontano e invita alla riflessione.Merito anche del libro — “Tecniche di resistenza interiore: come sopravvivere alla crisi della nostra società” di Piero Trabucchi — utile per portarci quasi ovunque.

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Perin, a proposito di sopravvivenza, lo sa che i portieri sono tra i frequentatori maggiori di questa rubrica? «Perché siamo diversi. Facciamo una cosa che va contro l’istinto umano: buttarsi a terra. Ogni giorno lo facciamo circa duecento volte in allenamento. E poi prendiamo pallonate, calci in faccia e non abbiamo paura. Siamo i più coraggiosi, e con un’agilità mentale superiore alla media».

Che cosa le ha dato questo libro? «Mi ha fatto vedere il genere umano sotto un’altra prospettiva. Ci soffermiamo tanto sulla crisi economica che viviamo e trascuriamo quella interiore che c’è in ognuno di noi».

Il concetto chiave del saggio è la resilienza, cioè la capacità di persistere nel perseguire obiettivi, fronteggiando tutte le difficoltà che si incontrano. «Esatto. E non è una cosa straordinaria: ognuno ce l’ha dentro. L’uomo nei secoli ha superato situazioni più complicate, adesso abbiamo abbassato la soglia della forza di volontà. Ci fanno credere che non siamo più capaci di fare niente, che per qualsiasi malessere abbiamo bisogno di una medicina. Dopo aver letto il libro ho provato a prendere meno antidolorifici possibili e mi sono abituato a resistere. E’ stata una sfida con me stesso e l’ho vinta, ma si può fare molto di più».

Qual è la cosa più positiva venuta fuori da questo periodo? «Ho capito le persone che stanno con Mattia e non con Perin. Dopo 2­3 anni di grandi soddisfazioni sportive, è inevitabile che ti trovi circondato da tante persone. Ora però so chi realmente tiene a me».

Per Trabucchi c’è l’equivoco del talento: sia chi ne ha, sia chi ne possiede meno, tutti paiono trascurare l’impegno, le cosiddette “diecimila ore”. Lei ha visto sprecare doti? «Nelle Under ne ho conosciuti tanti, ma cito Diego Polenta, che da noi ha giocato soprattutto in B nel Bari. In Primavera giocava da solo; lo voleva anche il Barcellona. Avrei messo la mano sul fuoco che avrebbe sfondato, ma gli sono mancate quelle diecimila ore. In fondo, anche avere voglia di migliorarsi ogni giorno è una dote. Il principe di questa categoria è Gattuso. Aveva un talento mentale e caratteriale da fare invidia a qualsiasi sportivo nel mondo. Una competitività incredibile. Per capire la resilienza bisogna studiare lui».

La crisi ha radici anche nell’economia: come vive il fatto di essere un privilegiato? «La mia famiglia non è stata ricca, anzi. So cosa si prova a possedere quasi nulla. Se un giorno dovessi perdere tutto non avrei paura, perché so di essere stato tanto felice lo stesso anche senza soldi. Certo, talvolta cado in tentazione. Le mie debolezze sono vini ed orologi di marca».

Cellulari e “multitasking”: secondo il libro, è uno dei modi in cui si perde di resilienza creando una società di zombie, pronti a essere solo consumatori. «Una volta ero così: mangiavo guardando il cellulare e alla fine non sapevo nemmeno cosa avevo nel piatto. Ora non lo faccio più. Mangio una mela? Faccio solo quello e me la gusto. Non voglio fare la morale a nessuno. Io senza cellulare sto male, ma so che l’uso eccessivo è sbagliato, così come l’ostentare la ricchezza. Perché far vedere su Instagram che hai la Ferrari o l’orologio da cinquantamila euro? Nel mondo d’oggi in cui conta l’immagine, però, ormai è una battaglia persa».

Nel 2016 le ritirano la patente per guida in stato d’ebbrezza, poi fa un video con la polizia per far capire ai giovani che è una cosa sbagliata. Risultato: 8.000 visualizzazioni. «Sono poche, ma spero che sia servito a uno su ottomila. Non sono un santo, ho fatto tante cavolate, però poi si deve crescere. Anche in questo il telefonino non aiuta. Ci stiamo troppo. Nello spogliatoio è disgregante. Finisce l’allenamento, la prima cosa che facciamo è accenderlo, vedere i messaggi e andare sui social. E’ sbagliato perché si crea poca comunicazione. Al Genoa abbiamo la regola di non usare il cellulare a tavola e molti nuovi, soprattutto gli stranieri, all’inizio ci rimangono male perché non sono abituati».

A propositi di social, la polemica di un anno fa coi tifosi del Frosinone su una brutta pagina della Seconda Guerra Mondiale (gli stupri di Vallecorsa, ndr), senza smartphone… «… non sarebbe successa. Un calciatore che appena pensa una cosa la mette su internet può scatenare un patatrac. Non ci sono filtri. So di avere sbagliato e ho chiesto scusa. Mi arrivano ancora insulti e me li tengo. Non cado più nel tranello di rovinare la mia immagine. Ci sono stato male. Ero deluso da me stesso perché avevo mancato di rispetto a me e alla storia italiana. Anche i miei genitori si arrabbiarono».

E’ vero che lei fa scherzi a suo padre? «Sì. Una volta a 18 anni gli dissi che avevo messo incinta Giorgia, la mia ragazza. Eravamo a Padova, a dicembre. Con 4 gradi sotto zero lui uscì in terrazzo con la camicia aperta perché gli era venuto caldo. Gli dissi la verità il giorno dopo…».

Con le donne siete più sfruttati o più sfruttatori? «C’è il giusto equilibrio. Tante ragazze vanno col calciatore, non con l’uomo. Se avessi fatto il bancario non avrei avuto tanti rapporti. E’ la fama che ti rende attraente, certe volte ci facciamo intortare e poi la paghiamo».

Torniamo a suo padre Pierluigi: è stato calciatore? «Sì, ha giocato fino agli Allievi nazionali nel Torino, poi tornò a casa per amore di una ragazza. Un incidente con la moto gli costò 7 operazioni a una gamba e il rischio amputazione. Per fortuna gliela salvarono, però rimpianti per la carriera mancata ce l’ha. Chissà, se papà avesse avuto più resilienza sarebbe arrivato, ma forse io ci sono riuscito proprio perché non ce l’ha fatta lui. Le dico questo: a 13 anni volevo andare ai Giovanissimi Nazionali della Serie C ad alto livello. Mia madre non voleva mandarmi e le dissi: “Mamma, pensa se fra dieci anni ti rinfacciassi che non mi hai fatto arrivare in Serie A”. Il giorno dopo mi dette il via libera».

Dica la verità, c’è un po’ di gelosia per il fatto che ora si parla solo di Donnarumma? «No. Lui è un fenomeno. Prima dell’infortunio avevo fatto un paio di stagioni alla grande, è normale che dopo un anno e mezzo in cui avrò giocato venti partite si parli meno di me. Questo è il calcio. Quando tornerò non sarò quello di prima: sarò diverso. Non so se più forte o meno forte, ma sarò un’altra persona. Fisicamente come prima, ma diverso per fame, rabbia o obiettivi. Ho il fuoco dentro».

Oggi c’ è stata sfida all’Inter alla quale è stato spesso associato: in futuro si vede ancora al Genoa? «Quando ero bambino, oltre al Latina, tifavo Ronaldo il Fenomeno. Comunque dell’Inter si parla ogni anno e ormai sono un veterano. Devo tutto al Genoa, è la mia seconda famiglia. Da professionisti non si sa quello che ci dirà il futuro. Bisognerà vedere gli obiettivi comuni. Dipenderà da tutti e due, ma pensiamo a salvarci. Ci hanno penalizzato gli infortuni e partenze come quelle di Rincon e Pavoletti, che erano trainanti. Eppure la piazza è fantastica; potenzialmente vale il 6°­7° posto, e prima o poi ci arriverà».

Quando intervistammo Viviano, ci disse: “Mattia è matto, ma io lo sono più di lui”. Davvero anche questo derby lo vince la Sampdoria? «E’ una bella lotta. Siamo due matti equilibrati, nel senso che lo siamo solo quando serve. Comunque, tante mattate che ho fatto, lui ancora non le sa»

Fonte: gasport

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